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domenica 22 aprile 2012

Crisi. La via delle illusioni.



Dopo Francia e Austria anche l'Olanda appare in qualche affanno sotto i colpi della crisi. Il salotto buono dei paesi più virtuosi dell'Eurozona è sempre meno frequentato. La Germania resta ormai in compagnia soltanto di Finlandia e Lussemburgo. Cosi Vito Lops sul Sole 24 Ore:

"La Tripla A dell'Olanda è a rischio. Il debito elevato e le difficoltà nel tenere sotto controllo il deficit potrebbero portare i Paesi Bassi fuori dal prestigioso club dei Paesi più affidabili dell'Eurozona".

"Nella lounge della Triple A rimarrebbero solo tre posti: Germania, Lussemburgo e Finlandia"

"...la congiuntura economica ha voltato le spalle anche alla virtuosa Olanda, entrata ufficialmente in recessione nel secondo semestre del 2011. Senza dimenticare, come ricorda il Wall Street Journal, che sul Paese incombe la spada di Damocle dei debiti ipotecari, balzati oltre il 100% del Prodotto interno lordo. Una preoccupazione non di poco conto dato che i prezzi delle case hanno imboccato la strada al ribasso dal 2008".

Complessivamente il PIL dei tre paesi primi della classe citati è circa un terzo del PIL dell'intera Eurozona. La Germania è ormai vicina al pareggio di bilancio, ma lo stock del debito pubblico rimane imponente. Il suo valore assoluto è superiore a quello italiano. Includendo passività da considerare pubbliche, è ormai oltre il 90% del PIL. Si consideri inoltre che paesi come Francia, Austria e Olanda non hanno intere regioni devastate dalla criminalità organizzata e non offrono il tragicomico spettacolo italiano dello sperpero del denaro pubblico e di una pubblica amministrazione gravemente inefficiente. Evidentemente soffrono gli effetti di un welfare insostenibile.
Se questi sono i termini quantitativi e qualitativi della crisi finanziaria europea, paiono illusorie le terapie oggi invocate da molti. Mutualizzazione dei debiti, eurobond, eliminazione dei vincoli imposti alla Banca Centrale Europea renderebbero agli occhi degli investitori internazionali più debole la Germania, solida ma troppo piccola per caricare sulle proprie spalle il fardello finanziario europeo, senza migliorare apprezzabilmente le prospettive di crescita delle economie del resto dell' area, appesantite dall'insufficiente competitività, non compensata davvero neppure da un indebolimento dell'euro. Basti pensare all'aumento conseguente dei costi delle materie prime, energetiche e non, dei semilavorati e dei prodotti tecnologici di ampio consumo che non vogliamo o non sappiamo più produrre.
In una recente intervista la cancelliera tedesca Angela Merkel ha chiarito la propria visione:

"L’Europa ha bisogno di più crescita e più occupazione: anche in futuro deve potersi affermare nella concorrenza mondiale. Io voglio che l’Europa, anche fra venti anni, sia apprezzata per il suo potenziale innovativo e per i suoi prodotti. Si tratta di come noi riusciremo ad affermarci in futuro nell’era della globalizzazione, e quindi a garantire anche in futuro il nostro benessere".

"Noi siamo solidali, non dobbiamo però neppure dimenticare la responsabilità propria. Sono due lati della stessa medaglia. Non ha senso promettere sempre più soldi, senza combattere contro le cause della crisi".

"Con tutti gli aiuti miliardari ed i meccanismi salva stati, noi in Germania dobbiamo fare attenzione che alla fine, neppure a noi, vengano a mancare le forze, perché neanche le nostre possibilità sono infinite, e questo non servirebbe a nessuno in Europa".

"...non sarebbe utile a nessuno se la Germania si indebolisse. Ovviamente, col tempo dobbiamo correggere gli squilibri in Europa, per raggiungere questa meta sono gli altri Paesi che devono aumentare di nuovo la loro competitività e non la Germania che deve diventare più debole".

"Non voglio un’Europa museo di tutto ciò che una volta era valido, bensì un’Europa in cui con successo si creano novità. So che per molti questo comporta un cambiamento molto, molto grande, dobbiamo quindi sostenerci a vicenda. Ma se ci tiriamo indietro dinanzi a questi sforzi, siamo solo gentili tra di noi e annacquiamo ogni tentativo di riforma, allora sicuramente rendiamo un pessimo servizio a l’Europa".

Merkel chiama l'Europa intera ad incrementare competitività e innovazione, a riformare welfare e legislazione del lavoro. Un richiamo severo che ai nostri orecchi poco avvezzi al discorso realistico può sembrare pura espressione di una teutonica inclinazione a dominare. Ma fortunatamente ci sono anche intellettuali italiani capaci di indicare all'opinione pubblica percorsi non illusori di uscita dalla crisi.
Tra questi:

Nicola Rossi

"... l’attuale modo di essere del settore pubblico italiano ammette solo due possibilità: moderata crescita ed alto debito (come negli anni ottanta) o finanze pubbliche in ordine, elevata pressione fiscale e nessuna crescita. La prima strada è per fortuna preclusa. La seconda è quella scelta dai governi degli ultimi quindici anni. Incluso l’attuale. Auguri!".

"l’obbiettivo è invece la modifica sostanziale della “way of life”, del modo di essere del settore pubblico italiano. La chiusura di parte dei programmi di spesa esistenti. La ridefinizione dell’ambito d’azione e di intervento dello Stato".

"Come può non essere pronto a regole vere di responsabilità fiscale un paese soffocato da una pressione fiscale nominale del 45% e reale del 55% a fronte della quale si fatica a trovare i corrispondenti servizi pubblici?".

Luca Ricolfi

"Spiace dovere battere così spesso sul medesimo ferro, ma mi pare davvero una generosa illusione quella di pensare che per uscire dalla stagnazione l’Italia abbia oggi bisogno innanzitutto di cambiare il suo software (il suo modo di pensare), e non sia invece il suo hardware (la macchina della sua economia) che è diventato un ferrovecchio. L’Italia è sempre stata priva di spirito civico, o capitale sociale, ma questo fragile software - fino a venti anni fa - non le ha impedito di crescere di più delle altre economie avanzate, fino a conquistare il benessere che ora stiamo cominciando a perdere. Quel che è venuto a mancare, dagli Anni 90, è invece l’hardware del Paese, ossia quell’insieme di condizioni materiali che permettono di fare impresa e competere con gli altri Paesi: buone infrastrutture, prezzi dell’energia competitivi, contributi sociali ragionevoli, basse aliquote societarie. Insomma, cose molto prosaiche, ma che fanno la differenza, ad esempio convincendo gli investitori stranieri a creare posti di lavoro nel nostro Paese".

"È vero, i mercati sono diventati «animali molto sensibili», e i segnali, gli umori, le emozioni, sono diventate cose sempre più importanti nel mondo di oggi. Ma non tutta l’economia è finanza (per fortuna) e, alla fine, quel che conta davvero - quel che sposta i capitali e fa vincere sui mercati - sono i costi di produzione. Da un governo tecnico, per di più pieno di economisti, non mi sarei mai aspettato tanta attenzione alle impalpabili vicissitudini dell’animo umano, e tanto poca considerazione per la dura, concreta, pietrosa, realtà di chi produce e cerca di stare sul mercato".

Maurizio Ferrera

"Più di due milioni di lavoratori disoccupati, quasi tre di scoraggiati, crescita sotto zero: l'Italia non sta bene. I governi dell'Unione Europea stanno consegnando a Bruxelles i nuovi Programmi nazionali di riforma (Pnr). La distanza dai Paesi con cui ci confrontiamo è enorme. I nostri punti di partenza erano già molto bassi due anni fa, quando fu lanciata la Strategia «Europa 2020» per rendere l'Unione competitiva. Da allora non abbiamo fatto altro che peggiorare".

"...serve una politica esplicita e coerente per l'inclusione di quanti sono rimasti fuori dal mondo del lavoro. Altrimenti si corre il rischio che, se e quando la crescita arriverà, i suoi effetti si facciano sentire solo all'interno delle tradizionali cittadelle. Nell'agenda del Pnr manca una riforma (migliorativa) che sarebbe essenziale: quella dell'assistenza, delle politiche e dei servizi alla persona. La spending review , la revisione della spesa, il riordino del fisco e la revisione dell'Isee (lo strumento che seleziona i beneficiari delle agevolazioni in base alla situazione economica) potrebbero fornire le risorse necessarie".

Irene Tinagli

"Il vero problema, come indicava Draghi e come ha ribadito un paio di giorni fa l’attuale governatore Visco, risiede nella produttività. Proprio la Banca d’Italia in uno studio sui primi dieci anni di Unione Monetaria (1998-2008) ha mostrato come la produttività sia aumentata del 18% in Francia, del 22% in Germania e del 3% in Italia.
Se l’Italia non è in grado di trasformare in maniera efficiente i suoi fattori produttivi in prodotti e servizi competitivi sui mercati internazionali (e farlo su larga scala, non in pochissime nicchie), non possiamo aspettarci che aumentino le retribuzioni, il Pil, i consumi e quant’altro".

Gian Maria Gros-Pietro

"ciò non vuol dire che i mercati finanziari si regolino sulla bussola dell'economia reale; ad essi interessano primariamente gli inevitabili effetti finanziari, che cercano di prevedere e anticipare nelle quotazioni: in questo caso scontano un'ulteriore flessione dell'attività in Europa, un conseguente appesantimento delle finanze pubbliche locali, quindi un minor valore dei titoli di Stato di cui si sono imbottite le banche europee, che pertanto sono le più bersagliate dalle vendite".

"È sempre più intollerabile assistere alla continua aggiunta di pesi – imposte, accise, adempimenti – e riduzione di trasferimenti verso la parte del Paese che produce e compete, mentre nessun sacrificio tocca a chi non compete, non è misurato nel suo sforzo, non è controllato negli adempimenti. Qui sì che occorre una svolta decisa, dalle privatizzazioni alle liberalizzazioni alla riduzione della sfera pubblica nel senso più ampio. Se lo si facesse, si scoprirebbe che i mercati finanziari sanno tradurre in valore le aspettative, come accadde sul finire dello scorso anno".

La via delle illusioni conduce al declino, ma non è inevitabile.


venerdì 13 aprile 2012

Soldi e politica. Dal finanziamento illecito dei partiti all'appropriazione indebita.

In questo interessante video, relativo al processo Cusani, Bettino Craxi risponde alle domande del pubblico ministero Antonio Di Pietro.



Ha scritto il professor Ernesto Galli della Loggia in Tre giorni nella storia d'Italia, 2010, pp. 108 e segg.:

"Nella Prima Repubblica, insomma, la politica diviene erogatrice, amministratrice e intermediaria di imponenti flussi finanziari dalla natura così varia e a così tanti livelli istituzionali da sfuggire ad ogni realistica possibilità di controllo".

"Per tutta la durata della Prima Repubblica, attraverso il sistema delle partecipazioni statali, la politica, nel nostro paese, era stata la proprietaria diretta di oltre un terzo dell'economia".

"Complessivamente, dal 1973 al 1979, secondo la documentazione sovietica esaminata da Victor Zaslavsky, arriva al Pci, da Mosca, la bella somma di 32-33 milioni di dollari".

"Dall'America giungono alla Democrazia cristiana, nel periodo 1948-68, secondo una commissione d' indagine Usa, 65 milioni di dollari (sono circa tre milioni l'anno)".

"Nell'Italia della Prima Repubblica, insomma, intorno all'attività politica gira molto denaro. Soprattutto perché la politica costa: giornali, sedi di partito, funzionari, feste, congressi, e soprattutto le elezioni inghiottono un mare di soldi".

Con il dichiarato fine di porre un freno ad abusi ed irregolarità nel 1974 il Parlamento votò la legge sul finanziamento pubblico ai partiti, con la previsione di pene severe per la sua inosservanza. Gli interventi della Magistratura furono rarissimi fino alla primavera del 1992, quando iniziarono le inchieste di Mani Pulite. Nel 1989 era caduto il Muro di Berlino. Al 1990 risale l'amnistia dei finanziamenti illeciti ai partiti. Nel 1991 si sciolse l'Unione Sovietica. Mentre la Democrazia cristiana ed il Partito socialista si dissolsero per effetto di tali inchieste, l'ex Partito comunista restò sostanzialmente indenne.
Un referendum popolare abrogò nel 1993 il finanziamento pubblico ai partiti ma il Parlamento, con interventi legislativi ripetuti dallo stesso 1993 ad oggi, disponendo l'erogazione di imponenti "rimborsi elettorali", ha di fatto reintrodotto tale finanziamento.
Queste le vicende che conducono alla situazione attuale segnata, rispetto alla cosiddetta Prima Repubblica, dalla riduzione del settore dell'economia direttamente gestito dalla politica, dalla persistente rilevante ingerenza della politica stessa nelle attività economiche, dal bipolarismo sgangherato che ha preceduto l'attuale governo "tecnico", dal discredito in cui sono caduti i partiti e i movimenti politici.
Non più consolidati dalla situazione internazionale e dal cemento ideologico, la loro credibilità è ogni giorno più lesa dagli scandali e dall'incapacità di fronteggiare la crisi economica. I trasferimenti di denaro pubblico alla politica sono oggi avversati radicalmente dall'opinione pubblica, che chiede tagli drastici. E' difficile dare una nuova efficiente disciplina alla materia sotto la pressione degli eventi. Ma, come sempre, i risultati migliori sono prodotti da un attento approccio comparativo. La legislazione delle altre democrazie occidentali deve ispirare la riforma. Senza dimenticare che anche le buone leggi hanno bisogno di un adeguato livello di osservanza spontanea.






domenica 8 aprile 2012

Una grande politica per il nostro tempo.

Oggi il professor Ernesto Galli della Loggia, sul Corriere della Sera, ha commentato le recenti vicende politiche italiane con queste parole:

"Ma così ancora una volta il Nord, quel Nord che ho definito sopra «ideologico», ha dimostrato la sua antica, direi storica, difficoltà a fare politica, la sua incapacità a rappresentare un soggetto politico all'altezza dei suoi propositi.
Difficoltà e incapacità che hanno una sola origine: l'idea, condivisa tanto dalla Lega che dal berlusconismo, che al dunque la politica possa essere, e di fatto sia, solo rappresentanza di interessi (inclusi quelli di coloro che la fanno...), e nulla più. Non già, come invece è, visione generale, indicazione di traguardi collettivi e di strumenti adeguati, impulso autonomo mosso da valori, e su queste basi, poi, ma solo poi, anche mediazione creativa tra esigenze diverse".

Senza "visione generale, indicazione di traguardi collettivi e di strumenti adeguati, impulso autonomo mosso da valori", superamento della mera rappresentanza di interessi, non c'è grande politica capace di risolvere problemi. Si tratta di considerazioni condivisibili ma ovvie e non prive di una certa astrattezza, non toccando le condizioni, i presupposti, i limiti e i pericoli di ogni politica che guardi oltre gli interessi particolari tentando di dar corpo a visioni generali e soluzione a grandi problemi.
Molti pensano che sia soprattutto necessaria la disponibilità di statisti adeguati per ingegno e integrità. Ma forse è ancora più importante la ricettività dell'elettorato, la capacità degli elettori di cogliere l'essenza dei problemi, di premiare con il voto politiche ampie, lungimiranti. Elettori così non si ottengono facilmente. Presuppongono tradizioni e clima colturale idonei, spesso con vicende storiche impressionanti per intensità e tragicità come catalizzatori.
Si deve poi sottolineare il pericolo insito in ogni approccio esteso, in ogni visione generale dalla forte connotazione etica. Il rischio è quello di tentare di sottrarsi alla critica ed al giudizio, di continuare a percorrere con ostinazione vie che si sono rivelate sbagliate, di non riuscire a correggere gli errori. La grande politica corre sul filo del rasoio. Possono talvolta essere inaccettabili i suoi grandi obiettivi e/o intollerabili i suoi strumenti, i suoi metodi. Ma di essa non si può fare a meno, anche negli anni in cui la vita è meno difficile.
Le democrazie occidentali hanno conosciuto statisti lungimiranti come:


Churchill


De Gasperi


   Adenauer   


De Gaulle


Reagan


I video proposti mostrano l'ammirazione dei sostenitori ed il rispetto degli avversari. Ma non possiamo non indagare le condizioni e i limiti dei loro successi, le ragioni dei loro insuccessi, le tradizioni, i valori, le idee che hanno reso possibile e sorretto la loro opera.


martedì 3 aprile 2012

Riforma elettorale.

In uno dei suoi più recenti interventi nel dibattito pubblico Karl Popper riaffermò la sua visione della democrazia (La lezione di questo secolo - Intervista di Giancarlo Bosetti, 1992, Appendice, pp. 84 -87):

"La parola "democrazia" che significa "dominio del popolo" è purtroppo un pericolo. Ogni membro del popolo sa di non comandare, perciò sente che la democrazia è una truffa. E' qui che sta il pericolo. E' importante che si impari fin dalla scuola che "democrazia", a partire dalla democrazia ateniese, è il nome tradizionale che si dà a una costituzione che deve impedire una dittatura, una tyrannis".

"... non tutti noi possiamo governare e dirigere, ma tutti possiamo partecipare al giudizio sul governo, possiamo avere la funzione di giurati".

"Proprio questo dovrebbe essere...il giorno delle elezioni, non un giorno che legittima il nuovo governo, ma un giorno in cui noi sediamo a giudizio sul vecchio governo. Il giorno in cui il governo deve rendere conto del suo operato".


"...la differenza fra la democrazia come dominio del popolo e la democrazia come giudizio del popolo ha anche effetti pratici: non è affatto solo verbale. Lo si vede dal fatto che l'idea del dominio del popolo porta ad approvare una rappresentanza popolare proporzionale".

"Considero una disgrazia la proliferazione dei partiti e quindi anche la legge elettorale proporzionale. La frammentazione dei partiti infatti porta a governi di coalizione in cui nessuno si assume la responsabilità di fronte al tribunale del popolo perchè tutto è un inevitabile compromesso. Inoltre diviene molto incerto riuscire a liberarsi di un governo, perchè gli basterebbe trovare un nuovo piccolo partner nella coalizione per poter continuare a governare".

Il grande filosofo austriaco descrive correttamente la "democrazia" possibile e, insieme, capace di risolvere problemi. Del resto l'avversione per il proporzionalismo appartiene al miglior pensiero liberale. Basti leggere, per l'Italia, quanto lucidamente scritto da Luigi Einaudi.
Ma, come paventato da Popper, l'illusione della democrazia come governo del popolo è largamente diffusa. Da ciò la pressochè generale richiesta di maggiore "partecipazione" e di una rappresentanza politica a tal punto "specchio del popolo" da realizzare un genuino "governo popolare".
A questa visione comune a molti si aggiunge l'oggettiva difficile condizione in cui si trova l'Italia odierna, afflitta da problemi strutturali che possono essere affrontati con qualche speranza di successo solo prendendo misure impopolari.
Chi si accinge a riformare la legge elettorale deve fare i conti con queste due esigenze: venire incontro alla domanda di "partecipazione", di legittimazione popolare della rappresentanza politica, e consentire la formazione anche di governi di coalizione al di fuori della logica bipolare.
Tale situazione può condurre, qualora si giunga ad una riforma, ad una legge elettorale più proporzionale della attuale, con una attenuazione dei tratti bipolari del sistema. Una sciagura per il paese? Non necessariamente. L'Italia non può sopportare oltre un conflitto politico distruttivo. Sembra necessario accentuare la flessibilità del sistema, anche al provvisorio prezzo di rendere meno diretta l'efficacia del voto popolare.
Vale forse la pena di tollerare, esaminando i tentativi di riforma in atto, qualche distanza dai buoni principi della tradizione liberale. Con il proposito di giudicare severamente alla prossima occasione i politici che abbiano fatto cattivo uso di tale deviazione dalle migliori regole.



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