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venerdì 27 luglio 2012

ILVA di Taranto. Per salvare lavoro e ambiente pressione fiscale ridotta ed energia meno cara.





I due maggiori produttori di acciaio tedeschi, ThyssenKrupp e Salzgitter, presentano un crollo degli utili determinato dagli alti costi e dalla debolezza della domanda. Tempi duri per l'acciaio, se perfino i colossi tedeschi del settore registrano perdite.
Un grande produttore italiano è l'ILVA spa, che possiede a Taranto lo stabilimento siderurgico più grande d'Europa, ora colpito da un provvedimento della Magistratura diretto a tutelare ambiente e salute. Così Domenico Palmiotti sul Sole 24 Ore:

"I settori dove il gip ordina siano posti i sigilli sono i parchi minerali, le cokerie, l'agglomerato, gli altiforni, le acciaierie e la gestione dei rottami ferrosi. Una grande parte dello stabilimento, sicuramente il suo motore produttivo. I sindacati parlano di 5mila posti in pericolo ma lo stop a così tanti reparti rischia di provocare una vera e propria onda d'urto e quindi travolgere le stime occupazionali che sono state fatte".

Si deve così fronteggiare un'altra crisi occupazionale, ma conseguenze gravi si prospettano per tutta la filiera, fino alla meccanica di qualità, che con le sue esportazioni contribuisce a puntellare il PIL italiano. Abbattere i danni alla salute e all'ambiente, esternalità negative, costa. Ma altri fattori decisivi della competitività sono la pressione fiscale, il costo dell'energia e delle materie prime, le relazioni industriali, il peso della burocrazia.
Mentre in ambito europeo il settore incontra crescenti difficoltà, pare particolarmente arduo risolvere il problema di Taranto. Per sperare di conservare una sufficiente competitività e quindi i posti di lavoro, essendo ineliminabili ed assai poco comprimibili i costi della tutela ambientale, bisogna modificare gli altri fattori citati. Pressione fiscale ridotta, energia e materie prime meno care, pubblica amministrazione più snella ed efficiente anche in questo caso possono fare la differenza.

giovedì 19 luglio 2012

Politica. L'offerta e la domanda.


Il professor Angelo Panebianco in un editoriale sul Corriere della Sera ha scritto:

"Viviamo in una fase ove è costante la tensione fra la democrazia e l'Europa, fra gli orientamenti degli elettorati e l'esigenza di salvaguardare il progetto comune europeo. È una tensione che a volte si riesce a tenere sotto controllo e a volte degenera in conflitto aperto. La frattura, che attraversa l'eurozona, fra le democrazie nordiche e le democrazie mediterranee, ne è espressione".

" Per quanto ciò possa apparire paradossale (e «politicamente scorretto»), quasi tutti, in Italia e fuori, temono il momento in cui la «democrazia» si riprenderà le sue prerogative, il momento in cui, fra meno di un anno, gli elettori si pronunceranno. Perché c'è in giro tanta paura della democrazia? Perché, a torto o a ragione, è diffusa la convinzione che le forze politiche fra le quali si distribuiranno i voti degli italiani, siano tutte inadeguate, costitutivamente incapaci di perseverare nelle politiche di risanamento che la crisi ha reso necessarie".

Quale via d'uscita? Secondo Panebianco le forze politiche dovrebbero condurre le campagne elettorali a colpi non "di promesse generiche  ma di progetti specifici". Occorre insomma qualificare l'"offerta" politica. Ma è davvero questa la soluzione?


Antonio Polito, sempre sul Corriere della Sera, ha invece scritto:

"Fuor di metafora, è diventato di moda condannare l'austerità e suggerire alternative keynesiane: iniezioni di denaro pubblico per battere la recessione. Ma mentre da noi le si invoca, in Germania sono convinti che l'Italia di oggi sia proprio il frutto di un lungo ciclo di politiche keynesiane. E in effetti è legittimo pensarlo di un Paese che ha accumulato la bellezza di duemila miliardi di euro di debiti".


Bisogna opporsi a tale tendenza maggioritaria nell'opinione pubblica italiana, frutto di decenni di propaganda politica irresponsabile e dell'egemonia di culture illiberali. Manca  una consapevolezza diffusa dei lineamenti e delle derive delle democrazie contemporanee. E' dunque necessario qualificare, più che l'"offerta",  la "domanda" politica.
Determinante si è rivelato il fallimento educativo della scuola dell'obbligo, chiamata a formare il cittadino elettore. Non è difficile insegnare a un adolescente che le nostre democrazie spendono gran parte delle loro risorse per sanità, pensioni, stipendi dei dipendenti pubblici e che quando le spese superano le entrate il debito graverà sulle generazioni future, compromettendone le prospettive. Eppure quasi nulla è stato fatto.
Non si tratta semplicemente di informare i giovani, ma di educarli alla libertà responsabile e a manutenere democrazie complesse e costose. Sbaglia chi crede che un liberale possa e debba separare l'informazione dall'educazione. I liberali da sempre puntano sulla educazione. In questa intervista Karl Popper affronta il tema con particolare chiarezza.




Giova infine riproporre questa considerazione di Tocqueville, a spiegazione dell'affermazione della libertà repubblicana americana, tratta dal Viaggio negli Stati Uniti, Quaderno E ( pag. 262 - 1990):

"Vi è un'importante ragione che supera ogni altra e che, dopo che tutte sono state soppesate, da sola fa pendere la bilancia: il popolo americano, considerato nel suo complesso, è non soltanto il più illuminato del mondo, ma, cosa che considero molto superiore a tale vantaggio, è il popolo che possiede l'educazione politica-pratica più evoluta".










giovedì 12 luglio 2012

Con Arthur Koestler tra le due Guerre mondiali.



Non raramente l'attuale crisi economica viene paragonata alla Grande depressione che ha seguito il crollo di Wall Street del 1929. Pare difficile individuare somiglianze davvero importanti. Basti confrontare la chiusura delle economie nazionali e coloniali in quegli anni ormai lontani con la cosiddetta globalizzazione che pone oggi in competizione le imprese e le economie di tutto il mondo.
Analogie meno evanescenti si rilevano qualora si indaghino i sentimenti diffusi, l'opinione pubblica e la visione degli intellettuali. Gli anni tra le due Guerre mondiali hanno visto l'affermazione dei grandi totalitarismi del Novecento. Oggi non si vedono neppure all'orizzonte giganteschi movimenti organizzati di questo tipo, ma si coglie qualcosa del clima che consentì tale affermazione. Simili sono il disprezzo per il parlamentarismo e le istituzioni della democrazia rappresentativa, l'inquietudine mobilitante, la miope difesa di interessi particolari.
Un grande testimone del periodo tra le due Guerre mondiali è stato Arthur Koestler. Nato in Ungheria nel 1905 da genitori ebrei, a Vienna frequentò  il Politecnico e aderì al sionismo. Nel 1926 partì per la Palestina senza aver conseguito la laurea. Qui lavorò in un kibbutz e iniziò una fortunata carriera giornalistica come corrispondente dal Medio Oriente di un grande gruppo editoriale tedesco. Nel 1929 fu corrispondente da Parigi. Dal 1930 al 1932 lavorò a Berlino. L'adesione al movimento comunista determinò la  fine dei suoi rapporti con la grande stampa tedesca. 
Nel 1932-33 viaggiò a lungo in Unione Sovietica. Nel 1936-37 seguì in Spagna la guerra civile come giornalista. Imprigionato dai franchisti, sfuggì alla morte grazie all'intervento inglese. Nel 1938 lasciò il partito comunista. Internato in Francia, nel 1940 passò in Inghilterra. Qui si arruolò nell'esercito inglese e iniziò una nuova brillante attività di scrittore e giornalista. Nel dopoguerra condusse una intensa battaglia anticomunista e a difesa dei diritti civili, dedicandosi infine a studi di filosofia e storia della scienza.
Famoso per i suoi romanzi, tra cui il notissimo Buio a mezzogiorno, scrisse libri autobiografici fondamentali per la comprensione degli anni tra le due Guerre mondiali. Freccia nell'azzurro, per gli anni dal 1905 al 1931, e La Scrittura invisibile, fino al 1940, rappresentano testimonianze lucide e coinvolgenti di vicende tragiche, di una conversione seguita da una disillusione esemplari in un'epoca di passioni politiche totalizzanti. Di queste grandi opere autobiografiche esiste un'ottima edizione italiana che risale agli inizi degli anni Novanta. Si tratta di libri, ancora reperibili nelle librerie in rete, notevoli per la brillantezza della scrittura, tanto da risultare consigliabili a tutti.

giovedì 5 luglio 2012

Storia politica dell'Italia unita. Il grande assente.





In Storia delle idee del secolo XIX (Freedom and Organization), 1968, p. 651 Bertrand Russell ha rilevato che:

"Sfortunatamente nei tre Imperi orientali la difesa della religione e della proprietà si trovò legata alla difesa dell'autocrazia, con la conseguenza che i capitalisti, anche quelli che sarebbero stati rovinati dalla guerra, si trovarono costretti a dare l'appoggio ai campioni di una diplomazia avventurosa, e i veri cristiani dovettero appoggiare il militarismo a fine di impedire la spoliazione di quelli che insegnavano la dottrina di Cristo".



Qui Russell, in un contesto ormai lontano, intuisce un'esigenza profonda  che ha caratterizzato i sistemi politici dell'Europa continentale non solo fino alla Prima guerra mondiale ma per tutto il Ventesimo secolo. In questi condizione di un progresso civile ed economico solido e vitale è stata la presenza di forti movimenti politici insieme genuinamente liberali, sinceramente democratici e non ostili alla religione, in particolare al Cattolicesimo.

Il genuino sostegno a mercato, proprietà privata e libertà individuali, la sincera fiducia nella democrazia, l'apertura al dispiegarsi del fenomeno religioso, anche in una dimensione pubblica, evitando la trappola del confessionalismo, quando sono riusciti insieme a radicarsi nell'opinione pubblica e a segnare ampi schieramenti politici hanno conferito all'intero sistema efficienza e stabilità.




Nella storia dell'Italia unita eminenti statisti come Giovanni Giolitti, Luigi Einaudi e Alcide De Gasperi, liberali e cattolici o cattolici liberali,  hanno fornito a questa esigenza di sistema una risposta, sia pure significativa, soltanto provvisoria, senza imprimere al sistema stesso svolte durature
. Occorre indagare le ragioni di questo fallimento, nel contempo riflettendo sull'Italia contemporanea, sulla sua società segnata da processi di fusione e destrutturazione, a tal punto cambiata da porre in dubbio l'utilità di percorrere strade già battute altrove con successo.
L'intuizione di Russell conserva ancora validità? Fornisce una chiave di lettura ed una prospettiva per un presente liquido, sfuggente, apparentemente non accoglibile sotto vecchie categorie? Probabilmente no. Ma occorre fare un tentativo, un serio sforzo di aggiornare il grande progetto che i migliori liberali italiani non sono riusciti a realizzare. Impareremo comunque dai nostri errori.

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