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mercoledì 22 maggio 2013

Staffetta generazionale. Senza capire, senza osare.



Alberto Alesina sul Corriere della Sera del 22 maggio 2013:

"Un anno e mezzo fa l'ex ministro Elsa Fornero diceva agli italiani che avrebbero dovuto lavorare più a lungo: anche fino a 67 anni. Oggi il ministro Enrico Giovannini spiega loro che debbono lasciare l'impiego prima, per fare spazio ai giovani attraverso quella che viene chiamata «staffetta generazionale». Vale a dire, un dipendente accetta di lavorare meno ore, con meno stipendio o di andare in pensione con una qualche penalizzazione, purché la sua azienda assuma un giovane.

Non sono chiarissime le conseguenze sulle imprese e i loro costi. Da un lato un giovane all'inizio della carriera ha un salario più basso, ma ci sarebbero costi legati all'inserimento del giovane al lavoro. Il saldo, positivo o negativo, dipenderebbe comunque da quanto meno si pagano gli anziani che passano al part time.

Insomma: la staffetta in sé e per sé non aiuterà la crescita. Anzi, sembra quasi un triste riconoscimento che l'unico modo per impiegare i giovani è chiedere ai genitori di scansarsi dal loro lavoro, cosa che suona come un'ammissione di incapacità a far crescere le ore di lavoro totali. Quindi la si venda per quello che è: una misura un po' disperata per cercare di aiutare una generazione in grave difficoltà in un modo che però non aiuta ad attaccare alla radice i problemi di un Paese fermo da due decenni".

La proposta presta dunque il fianco, tra gli altri, a un rilievo che dovrebbe risultare devastante: "non aiuta ad attaccare alla radice i problemi di un Paese fermo da due decenni".
L'Italia è ferma da due decenni perchè nella economia globalizzata competitività e produttività italiane sono largamente insufficienti. Se non si inizia immediatamente ad aggredire questo problema il paese non sfuggirà ad un rapido declino.
Occorre intraprendere profonde riforme strutturali. Ristrutturare il welfare secondo il principio di sussidiarietà, rendendolo sostenibile. Rivedere il meccanismo dei trasferimenti agli enti locali. Ricostruire la Pubblica Amministrazione, concentrando l'attenzione su settori decisivi come scuola e giustizia. Tagliare così la spesa pubblica per ridurre la pressione fiscale. Agevolare la realizzazione delle infrastrutture necessarie ed abbassare il costo dell'energia, conciliando le esigenze di tutela ambientale con quella di innescare uno sviluppo adeguato e vitale.
Si tratta evidentemente di un "vasto programma", ma non esistono alternative. O questo o il baratro. Eppure, sorprendentemente, se ne parla sempre meno. Più il baratro si avvicina, meno si va al cuore del problema. Non si capisce, non si osa. Non si capisce perchè manca una diffuso approccio realistico e genuinamente critico. Non si osa perchè la miopia politica e la pochezza morale impediscono di perseguire obiettivi alti.

Sul Corriere della Sera del 21 maggio 2013 Giuseppe De Rita, pur con non condivisibile nostalgia, ha colto nel segno, ma soltanto a metà:

"Il messaggio profondo della politica oggi sta proprio nel diffondere, anzi imporre, l'appiattimento al basso della cultura collettiva, della dinamica sociale. Ed è colpa ben più grave dei vizi di casta, perché inquina la chimica intima della società, ne riduce le dinamiche in avanti e le speranze".

In realtà si tratta di un circolo vizioso. La politica italiana è inadeguata perchè è espressione di una società povera culturalmente e moralmente. Manca così a tale società la grande politica indispensabile per fronteggiare i suoi problemi. Cosa fare? Portare il dibattito pubblico nella direzione giusta. Per capire e per osare.


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