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lunedì 24 giugno 2013

Educazione al mercato.



Il professor Luigi Zingales, soprattutto con il suo recente Manifesto capitalista, ha dato un significativo contributo al dibattito pubblico. Una sorta di riconoscimento dell'importanza di tale contributo è costituita dall'inserimento nelle tracce dei temi della Maturità di un brano dell'economista che, commentando la notizia su Il Sole 24 Ore del 20 giugno 2013, così offre una sintesi della sua posizione:

" ...Il delicato equilibrio tra capitalismo e democrazia, che ha beneficiato il mondo occidentale negli ultimi 65 anni, sembra essersi rotto. Declinato in modo diverso in America ed Europa, questo equilibrio si basava su un capitalismo in grado di arricchire tutti e di una democrazia che rinunciava agli eccessi redistributivi per garantire il prosperare del sistema di mercato. A sigillare questo patto contribuiva un sistema fiscale e previdenziale che gratificava le generazioni presenti, trasferendo i costi su quelle future. Fintantoché le generazioni future erano più numerose e più ricche, il peso di questo trasferimento era minimo: la cosa più vicina ad un "free lunch" (pasto gratis) che esista in economia. 
Purtroppo le premesse sottostanti questo equilibrio si sono infrante. La globalizzazione, che ha portato enormi vantaggi ai paesi in via di sviluppo, ha anche facilitato una distribuzione del reddito più ineguale nei paesi sviluppati. Mentre i lavoratori non qualificati, tanto in America come in Italia, vedono i propri salari erosi dalla competizione cinese ed indiana, le superstar, dal calcio alla moda, dal cinema all'economia, beneficiano enormemente di un mercato globale per i loro talenti. Il rallentamento della crescita economica e l'azzeramento della crescita demografica hanno ridotto i margini di manovra, rendendo più difficile sostenere un welfare generoso. Nell'Occidente il capitalismo non sembra più in grado fornire un benessere diffuso. A peggiorare le cose contribuisce una percezione diffusa che le regole del gioco siano falsate a favore di pochi: testa vinco io, croce perdi tu. Se questo è vero in tutto il mondo occidentale, è particolarmente vero in Italia, dove la crescita si è fermata già da vent'anni e dove, con qualche nobile eccezione, l'élite economica e politica è frutto di clientelismo e nepotismo, invece che di un sistema meritocratico".

E' ormai ben noto che il mercato ha bisogno di regole vigenti e di uno stato efficiente. Meno frequente è la consapevolezza del difficile rapporto tra mercato e democrazia. Raramente poi si ammette che il mercato può essere vitale e migliorare la condizione di molti solo quando produttori, consumatori e cittadini elettori ne conoscono, sia pure sommariamente, le premesse, il meccanismo, i problemi, la fragilità, le opportunità, il valore. E' necessaria una vera e propria educazione al mercato, che prepari alla competizione regolata come preziosa fonte di innovazione, efficienza, crescita e che formi il cittadino elettore alla sua manutenzione.
In un articolato eppure commosso intervento su La Stampa del 16 maggio 2013 il professor Mario Deaglio ha raccontato la "generazione perfetta" dei nati nel 1943:

"Gli anni Sessanta non erano certo un paradiso, ma per moltissime famiglie italiane rappresentò l’uscita dall’inferno della povertà senza speranza. La guerra era ancora molto vicina e tutti i giorni i giornali ci ricordavano che ci poteva piovere in testa l’atomica. Della guerra, come di politica, si raccontava e si discuteva nelle lunghe sere dell’era pre-televisiva. Per questo, quando eravamo quindicenni-diciottenni la nostra sensibilità (e cultura) politica era nettamente superiore a quella attuale dei quindicenni-diciottenni di oggi".

" Per i settantenni l’impressione è di essere gli ultimi di un mondo, che subito dopo di noi si sia operato uno stacco lacerante; siamo, in una certa misura, dei sopravvissuti. In un momento di crisi profonda, però, in quanto estremi portatori di valori che hanno contribuito al successo passato di questo Paese, anche i testimoni del passato servono. Forse questa generazione - ancora largamente in salute grazie ai progressi della medicina - può ancora dare qualcosa a un Paese stordito".

Questa generazione ha sentito vicina la guerra, ha fatto sacrifici, ha continuato a considerare il lavoro e la famiglia valori preziosi. Ma non è riuscita a costruire un'Italia capace di crescere nel lungo periodo, di rispondere alle sfide della globalizzazione. Molti dei presupposti necessari erano presenti, eppure ha fallito. Perchè? Perchè "Precisamente nel Sessantotto, per noi, a differenza dei più giovani, la stabilità cominciava a far premio sulla crescita, la normalità sull’innovazione. Una canzoncina della mia gioventù diceva: «Lavoro in banca/ stipendio fisso/ così mi piazzo/ e non se ne parla più». 
E' mancata un'educazione al mercato, alla competizione responsabile e regolata, all'innovazione lungimirante. Scuola e informazione sono state segnate dall'egemonia di culture e visioni illiberali. Così gli uomini per tanti versi migliori non hanno saputo fare cose buone.

martedì 18 giugno 2013

Il welfare secondo Putin.



Su La Stampa del 13 giugno 2013 un'intervista a Vladimir Putin realizzata dai giornalisti dell’agenzia russa Ria Novosti in vista del vertice del G8. Il presidente russo si diffonde nell'esame del modello europeo di stato sociale:

"Non la politica sociale, ma la vita con spese superiori alle proprie risorse, la perdita di controllo sullo stato generale dell’economia, gli squilibri strutturali sono ciò che ha portato alle conseguenze che possiamo vedere oggi in Europa. In molti paesi europei inoltre sta fiorendo il parassitismo: non lavorare è spesso assai più proficuo che lavorare. Questa è una minaccia non solo all’economia, ma alle basi morali della società. È ben noto che molti cittadini dei paesi meno sviluppati arrivano in Europa apposta per “vivere dell’assistenza sociale”, come si dice in Germania". 

"Oggi proprio la crescita dei redditi della popolazione, delle spese di consumo, dei prestiti bancari sono i fattori principali che stimolano l’economia del nostro paese. I grandi mezzi finanziari dello stato si spendono per l’aumento dell’occupazione, per la creazione dei nuovi posti di lavoro e per la realizzazione dei programmi dell’impiego. Allo stesso tempo i redditi in termini reali stanno crescendo, l’adeguamento delle pensioni e dei sussidi sociali all’inflazione è una realtà, il sistema pensionistico in generale si sta modernizzando. In seguito a questo il livello della disoccupazione nella Russia nei primi quattro mesi del 2013 è rimasto abbastanza basso (– 5,7%). Più attenzione va dedicata invece alle questioni del miglioramento della situazione demografica, allo sviluppo del sistema della sanità. Stiamo realizzando i rispettivi programmi e progetti. Per quello che riguarda l’Europa, a quanto vediamo, i paesi europei principali svolgono le riforme strutturali per aumentare la competitività delle proprie economie, lottano alla disoccupazione. Allo stesso tempo per via del miglioramento del coordinamento delle politiche del bilancio ed economiche l’approccio verso l’austerità finanziaria diventa più flessibile. Ed i loro obblighi sono stati formalizzati nella Strategia dello sviluppo economico-sociale dell’UE fino al 2020. Quindi non bisogna dare per sconfitto il modello sociale europeo".

"Non bisogna dare per sconfitto il modello sociale europeo", afferma Putin, pur denunciandone i problemi. Il presidente delinea i successi in ambito sociale del governo russo. Dimentica però di dire che tali risultati, per altro non eclatanti, sono stati ottenuti non con un significativo aumento della produttività e dell'efficienza del sistema, bensì con l'intenso sfruttamento delle risorse naturali del suo grande paese, che già ha reso a lungo sostenibile l'economia sovietica. L'obiettivo di una diversificazione produttiva, che renda l'economia russa non  dipendente dall'esportazione di materie prime, gas e petrolio, rimane lontano.
Condivisibile è invece la preoccupazione per le conseguenze negative di un welfare mal congegnato, che disincentiva l'iniziativa, il lavoro e il risparmio, diventando sempre più insostenibile. La preoccupazione per gli effetti perversi dell'assistenza pubblica contraddistingue il pensiero già dei grandi precursori del liberalismo. Basti citare il Saggio sulla povertà di Tocqueville, recentemente ripubblicato dalla casa editrice dell'Istituto Bruno Leoni:

"Chi oserà lasciar morire di fame il povero perché egli è vittima del proprio difetto? Alla vista della miseria del nostro prossimo, lo stesso interesse personale tace; l’interesse del tesoro pubblico ne sarà meglio capace? E se l’anima dell’amministratore dei poveri rimarrà inaccessibile a queste emozioni, sempre belle, anche se dissipate, resterà essa inflessibile alla paura? Tenendo egli tra le sue mani il dolore o le gioie, la vita o la morte di una porzione considerevole dei suoi simili, della porzione più disordinata, più turbolenta, più rozza, non indietreggerà dinnanzi l’esercizio di questo terribile potere?" 

"Qualsiasi strategia che fonda la beneficenza legale su una base permanente e che le dà una forma amministrativa crea dunque una classe oziosa e composta da parassiti, che vive sulle spalle della classe industriale e lavoratrice. È questa, oltre il suo effetto immediato, la conseguenza inevitabile... Una tale legge è un seme avvelenato, messo nel cuore della legislazione; le circostanze, come in America, possono impedire al seme di svilupparsi rapidamente, ma non possono distruggerlo; e se la generazione corrente sfugge alla sua influenza, divorerà il benessere delle generazioni a venire.
Se voi studiate da vicino lo stato delle popolazioni nelle quali una simile legislazione è in vigore da molto tempo, scoprirete facilmente che le sue conseguenze non agiscono in maniera meno deprecabile sulla moralità quanto sulla prosperità pubblica, e che essa deprava gli uomini ancora di più di quanto li impoverisce".

Parole dure, ma non prive di fondamento. Dopo secoli una questione irrisolta, anche sotto il profilo speculativo.


martedì 11 giugno 2013

Germania. Studenti in azienda.



Sul Corriere della Sera dell'11 giugno 2013 l'inviata Giuliana Ferraino intervista la ministra tedesca del Lavoro e Affari sociali Ursula von der Leyen. Le domande vertono sui giovani e la disoccupazione giovanile. Così la ministra:

"Abbiamo bisogno di un’iniziativa per la crescita nei Paesi che hanno una grande disoccupazione giovanile, come la Grecia, la Spagna, il Portogallo e l’Italia. Dobbiamo creare possibilità d’impiego sostenibili. Per questo abbiamo bisogno di un moderno sistema di formazione professionale duale per i giovani e dobbiamo combattere la stretta creditizia, che soffoca le piccole e medie imprese".

"La Germania 10 anni fa era il malato d’Europa, con 5 milioni di disoccupati. Abbiamo dovuto riformare molto. I due pilastri della svolta? La riforma ha reso più flessibile un mercato del lavoro molto rigido, e ha rivoluzionato il sistema dei servizi all’impiego. A chi è disoccupato per prima cosa offriamo un lavoro o un corso di formazione, in passato c’era solo il sussidio. Il personale dei servizi all’impiego è tenuto ad eliminare gli ostacoli che ci sono tra la persona disoccupata e il posto di lavoro. Per esempio, i genitori possono ricevere assistenza per i figli piccoli. Dal primo agosto entrerà in vigore una legge che garantisce un posto all’asilo a tutti i bambini di almeno un anno di età".

"Il consolidamento dei conti pubblici è inevitabile. Serve a riportare fiducia tra gli investitori e ad attrarre investimenti dall’estero, a restare competitivi nell’economia globale. Ciò non funziona con trucchi contabili, ma solo con veri risparmi. Dove ci sono meno risorse, si devono usare in modo più mirato".

" La metà dei ragazzi tedeschi frequenta un corso di formazione professionale. Abbiamo 340 vocazioni diverse, dall’infermiere al bancario, dal meccanico all’elettronico. È una combinazione di teoria e pratica: tre giorni alla settimana di training in azienda e due giorni in aula...Alla base c’è una partnership tra pubblico e privato, perché le imprese devono offrire i posti e pagare la retribuzione dei giovani, e poi serve un ente che gestisca i certificati, in Germania lo fa la Camera di Commercio".

"Italia e Germania non sono in competizione tra loro, ma insieme competono con la globalizzazione. È in gioco il nostro destino europeo e l’Europa deve essere unita".

Ciò che contraddistingue invariabilmente la posizione dei governanti tedeschi è l'attenta considerazione dei problemi posti dalla globalizzazione. Essi sanno bene che proprio la competizione in una economia globalizzata ha in realtà determinato la crisi attuale e che tale crisi si fronteggia con più competitività, più produttività, più innovazione.
L'intero welfare e il sistema scolastico vanno ristrutturati in senso produttivistico. Lo stato sociale deve concentrare la propria attenzione su chi non ce la fa da solo, colpire la pigrizia e rimettere in condizione di svolgere un ruolo attivo chi è uscito dal mercato. Il sistema scolastico deve preparare i giovani al lavoro, avvicinando la scuola all'azienda e alle sue esigenze.
Senza la manifattura ad alto valore aggiunto la crisi occupazionale e reddituale non può essere superata. Le aziende manifatturiere pongono richieste precise sotto il profilo dell'istruzione professionale, tecnica e scientifica. La scuola deve dare risposte altrettanto precise. Le riforme che incidono sulla struttura produttiva e della pubblica amministrazione rappresentano la sola alternativa al famigerato "rigore". Il resto è illusione e alibi per politici inetti.

martedì 4 giugno 2013

Banca d'Italia. Un paese in ritardo.




Nelle sue recenti Considerazioni finali all'Assemblea Ordinaria dei Partecipanti il governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco ha sottolineato alcuni tratti strutturali della crisi italiana che purtroppo non trovano adeguato spazio nel dibattito pubblico:

"Le origini finanziarie e internazionali della crisi, cui si è soprattutto rivolta l’attenzione delle autorità di politica economica, non devono far dimenticare che in Italia, più che in altri paesi, gli andamenti ciclici si sovrappongono a gravi debolezze strutturali.  Lo mostra, già nei dieci anni antecedenti la crisi, l’evoluzione complessiva della nostra economia, peggiore di quella di quasi tutti i principali paesi sviluppati. 
Non siamo stati capaci di rispondere agli straordinari cambiamenti geopolitici, tecnologici e demografici degli ultimi venticinque anni. L’aggiustamento richiesto e così a lungo rinviato ha una portata storica; ha implicazioni per le modalità di accumulazione del capitale materiale e immateriale, la specializzazione e l’organizzazione produttiva, il sistema di istruzione, le competenze, i percorsi occupazionali, le caratteristiche del modello di welfare e la distribuzione dei redditi, le rendite incompatibili con il nuovo contesto competitivo, il  funzionamento  dell’amministrazione  pubblica.  È  un  aggiustamento che necessita del contributo decisivo della politica, ma è essenziale la risposta della società e di tutte le forze produttive.
Le imprese sono chiamate a uno sforzo eccezionale per garantire il successo della trasformazione, investendo risorse proprie, aprendosi alle opportunità di crescita, adeguando la struttura societaria e i modelli organizzativi, puntando sull’innovazione,  sulla  capacità  di  essere  presenti  sui  mercati  più  dinamici. Hanno mostrato di saperlo fare in altri momenti della nostra storia. Alcune lo stanno facendo. Troppo poche hanno però accettato fino in fondo questa sfida; a volte si preferisce, illusoriamente, invocare come soluzione il sostegno pubblico". 

Mentre dei vizi e delle insufficienze della politica e dei politici italiani si parla molto, più o meno appropriatamente, non si dedica la necessaria attenzione alla struttura e alla condotta delle imprese italiane. Alcune sono state "capaci di rispondere agli straordinari cambiamenti... degli ultimi venticinque anni", operano con successo nella economia globalizzata, esportano e puntellano il PIL italiano.
 Molte altre non sono invece riuscite a rinnovarsi, a finanziarsi senza ricorrere prevalentemente al credito bancario, a raggiungere dimensioni idonee, a innovare prodotti e processi produttivi. Altre ancora hanno vissuto del sostegno pubblico o costituiscono esempi di vero e proprio capitalismo clientelare. Questa parte dell'imprenditoria rappresenta un aspetto importante della crisi italiana. Tra drammi personali e difficoltà congiunturali lo spazio per intervenire appare stretto.
Visco tocca anche la questione del modello di welfare. Esso diventa sostenibile solo se è correttamente applicato il principio di sussidiarietà. Chi non ce la fa da solo deve  ricevere l'aiuto pubblico. Gli altri devono pagare meno tasse, provvedere da sè ai propri bisogni e premiare i fornitori di servizi più efficienti.
Dal governatore della Banca d'Italia un efficace richiamo al realismo e all'unità di intenti.


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