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venerdì 31 gennaio 2014

L'età dell'oro.



La nostalgia è utile quando ci spinge a cercare i fattori del passato benessere, le ragioni di un successo che vorremmo replicare. Nell'immaginario di molti italiani l'età dell'oro è rappresentata dagli anni Ottanta del secolo scorso. Ma il riferimento a parametri più oggettivi e universalmente apprezzabili, oltre al mito costruito nei media, consente di individuare nel ventennio successivo alla fine della Seconda guerra mondiale vissuto dagli Stati Uniti d'America il periodo per molti versi più favorevole. Il professor Luigi Zingales, nel suo recente Manifesto capitalista, ci fornisce importanti elementi di comprensione:

"...nel 1975, l'americano medio guadagnava il 74% in più di suo padre. Il sogno americano sembrava alla portata di tutti".

"Come ha insegnato Adam Smith, la ricchezza delle nazioni viene determinata fondamentalmente dalla loro produttività. E gli Stati Uniti vantavano un vantaggio di produttività enorme nei confronti del resto del mondo, che consentiva loro di distribuire la ricchezza creata fra la popolazione. Una ragione di questo vantaggio era la tradizione di rispetto della legge e dei diritti di proprietà che ha sempre caratterizzato la nazione e che allora era particolarmente rara nel mondo".

"Un altro fattore cruciale per la superiorità dell'America in termini di produttività era la sua forza lavoro. Grazie alla propria tradizione democratica (anzi, populista), gli Stati Uniti nel dopoguerra erano uno dei Paesi più istruiti del mondo. Nel 1950, quando il 44% della popolazione globale era analfabeta e soltanto l'8,2% aveva conseguito un diploma di scuola superiore, le percentuali corrispondenti negli Stati Uniti erano 2,2 e 37%".

"...lo sforzo bellico aveva imposto alle imprese americane di modernizzare e migliorare la loro produttività, rendendo il Paese la forza industriale di gran lunga preminente nel mondo. L'eccesso di offerta di materie prime nel dopoguerra abbassò il prezzo reale del petrolio, del minerale di ferro e di altre materie prime. I prezzi reali delle materie prime a uso industriale si dimezzarono tra il 1950 e il 1970, consentendo ai cittadini americani di migliorare rapidamente il proprio tenore di vita" (Luigi ZINGALES,  Manifesto capitalista - Una rivoluzione liberale contro un'economia corrotta, 2012, p. 173 e seg.).

Alle condivisibili considerazioni di Zingales si può aggiungere, seguendo la lezione di Tocqueville,  che in quegli anni ormai lontani negli USA ancora era comune e sentito un Cristianesimo capace di richiamare alla responsabilità e all'adempimento dei più elementari doveri, mentre un efficace addestramento alla democrazia si realizzava nelle assemblee e nei comitati. Ne risultava un paese libero e dal benessere sempre più diffuso, sia pure con l'irrisolta questione della effettiva emancipazione dei cittadini di colore. Così si espresse Karl Popper nella sua più importante opera autobiografica:

"L'America  mi piacque fin dal primo istante, forse perchè prima avevo qualche pregiudizio nei suoi confronti. Nel 1950 c'era un senso di libertà, di indipendenza personale, che non esisteva in Europa e che, pensavo, era ancor più forte che in Nuova Zelanda, il paese più libero che io conoscessi" (Karl POPPER, La ricerca non ha fine - Autobiografia intellettuale, 1978, p.132).

La storia non si ripete mai. Ma una attenta riflessione sul passato ci consente di individuare chiavi di lettura promettenti.

venerdì 24 gennaio 2014

Crisi. Così si alimenta l'illusione.





 Due grandi linee di approccio alla crisi si confrontano nel dibattito pubblico.  Alcuni prendono a modello le politiche economiche adottate negli USA e in Giappone. Altri sottolineano i problemi  posti dalla globalizzazione e l'esigenza di ripristinare nella cosiddetta economia reale i presupposti di una produzione competitiva, idonea a creare buona e vitale occupazione.
Questa sostanziale dicotomia si rileva giustapponendo una intervista all'economista Nouriel Roubini su Radio24 a un recente dibattito tra Andrea Montanino e Michele Boldrin.
 Emerge chiara da una parte la sopravvalutazione della crescita negli Stati Uniti. In questi l'incremento del PIL è in buona misura spiegabile con l'aumento delle rimanenze di invenduto, con la ripresa del credito al consumo e con la rivoluzione energetica dello shale gas/oil.  L'occupazione non migliora apprezzabilmente. Aumentano infatti gli occupati a tempo parziale non volontari e gli scoraggiati, mentre i nuovi posti di lavoro sono spesso di bassa qualità, creati prevalentemente nei settori della grande ristorazione, del commercio, dell'assistenza sanitaria e agli anziani, in attesa che il basso costo dell'energia dia maggior slancio alla manifattura. Non si dà inoltre ragguaglio dei rischi derivanti dalla politica monetaria accomodante destinata a venire meno in tempi non lunghi.
Montanino e Boldrin danno invece vita a un dibattito attento ai nodi dell'economia reale, dove scuola, innovazione produttiva, burocrazia, pressione fiscale, spesa pubblica e globalizzazione costituiscono i temi principali. La grande crisi in atto, che non presenta i tratti di quelle cicliche, affonda le proprie radici nei difetti strutturali del sistema paese gettato nella competizione economica globale, accompagnati e in larga misura causati dal fallimento delle principali agenzie educative.
In quest'ultima corretta prospettiva il cosiddetto rigore si rivela non solo causa ma soprattutto conseguenza della crescita insufficiente, tale per la debolezza dei suoi fattori. La natura strutturale della crisi va ben spiegata a chi ne è vittima. Solo da questa precisa consapevolezza si può ripartire. Attribuire all'euro, all'Europa e alla Germania in particolare colpe che sono soltanto nostre non ci aiuterà a risolvere i nostri problemi. Lasciamo questi facili alibi ad economisti inadeguati e a politici spacciatori di illusioni.




venerdì 17 gennaio 2014

Immigrazione. Tra cielo e terra.



Sul Corriere della Sera del 13 gennaio 2014 Angelo Panebianco esamina i nodi principali della politica dell'immigrazione in Italia. Scrive il professor Panebianco:

"...sembriamo incapaci, a causa di certe sovrastrutture ideologiche, di decidere una volta per tutte a quale criterio appendere la politica dell’immigrazione: la convenienza oppure l’accoglienza?".

" L’appello all’accoglienza ha una chiara origine ideologica, nasce dalla confusione, propria di certi cattolici (ma non tutti), e anche di un bel po’ di laici, fra la missione della Chiesa e i compiti degli Stati".

"L’accoglienza non può essere il criterio ispiratore di una seria politica statale. Perché si scontra con l’ineludibile problema della «scarsità »: quanti se ne possono accogliere? Qual è il tetto massimo?".

"L’unico criterio su cui è possibile fondare una politica razionale dell’immigrazione, per quanto arido o «meschino» possa apparire a coloro che non apprezzano l’etica della responsabilità, è dunque quello della convenienza...".

"È evidente che se usiamo il criterio dell’accoglienza non possiamo selezionare. Invece, possiamo, e dobbiamo, farlo alla luce delle convenienze. Di quali immigrati abbiamo bisogno? Con quali caratteristiche, con quali eventuali competenze?".

"... certi gruppi, provenienti da certi Paesi, dovrebbero essere privilegiati rispetto ad altri gruppi, provenienti da altri Paesi, se si constata che gli immigrati del primo tipo possono essere integrati più facilmente di quelli del secondo tipo. È possibile che convenga favorire l’immigrazione dal mondo cristiano-ortodosso a scapito, al di là di certe soglie, e tenuto conto del divario nei tassi di natalità, di quella proveniente dal mondo islamico".

Si tratta di considerazioni largamente condivisibili, purchè non si cada in un grave errore: pensare che tra Cristianesimo e decisione politica si possa e debba porre una barriera insuperabile, non possa e non debba operare una proficua influenza effetto della purificazione delle coscienze a cui questo tende.
Il grande pensiero liberale è da sempre consapevole del legame tra libertà, democrazia e Cristianesimo. Nella Democrazia in America Tocqueville delinea compiutamente la portata storico-civile, sociale  e culturale del Cristianesimo, mettendo in evidenza proprio il suo stretto rapporto con la libertà. Si legga, in particolare, nel Libro Terzo, Parte Prima, Capitolo Quinto:

"Non vi è quasi azione umana, per quanto particolare, che non nasca da un'idea generale che gli uomini hanno concepito di Dio, dei suoi rapporti con l'umanità, della natura dell'anima e dei doveri verso i loro simili".

"Gli uomini hanno, dunque, un immenso interesse a farsi idee ben salde su Dio, l'anima e i doveri generali verso il Creatore e verso i loro simili, poichè il dubbio su questi primi punti abbandonerebbe tutte le loro azioni al caso e li condannerebbe, in un certo senso, al disordine e all'impotenza.
Questa è, dunque, la materia su cui è necessario che ognuno abbia idee ferme, e disgraziatamente è anche quella in cui è più difficile fermare le proprie idee con il solo sforzo della ragione".

"Le idee generali relative a Dio e alla natura umana sono, quindi, fra tutte le idee quelle che è più conveniente sottrarre all'azione abituale della ragione individuale, la quale ha a questo riguardo più da guadagnare che da perdere nel riconoscere un' autorità".

"Per parte mia non credo che l'uomo possa mai sopportare insieme una completa indipendenza religiosa e un'intera libertà politica e sono portato a pensare che, se egli non ha fede, bisogna che serva e, se è libero, che creda".

"....nel Corano non solo dottrine religiose, ma anche massime politiche, leggi civili e criminali e teorie scientifiche. Il Vangelo, invece, parla solo dei rapporti generali degli uomini con Dio e fra loro. Al di fuori di questo non insegna nulla e non obbliga a credere nulla. Questo soltanto, fra mille altre ragioni, basta a mostrare che la prima di quelle due religioni non può dominare a lungo in tempi di civiltà e di democrazia, mentre la seconda è destinata a regnare anche in quei secoli come in tutti gli altri".

Già Montesquieu, che lo stesso Tocqueville riconosceva come maestro, scrisse nel libro ventiquattresimo, capitoli terzo e quarto dello Spirito delle leggi:

"Per quanto riguarda il carattere della religione cristiana e quello della religione musulmana, si deve senz'altro abbracciare l'una e respingere l'altra: perchè per noi è molto più evidente che una religione debba addolcire i costumi degli uomini, di quanto non sia evidente che una religione è la vera".

"E' una sciagura per la natura umana che la religione sia data da un conquistatore. La religione maomettana, la quale non parla che di spada, influisce ancora sugli uomini con quello spirito distruttore che l'ha fondata".

"La religione cristiana è lontana dal dispotismo puro: infatti, essendo la mitezza tanto raccomandata nel Vangelo, essa si oppone alla collera dispotica con cui il principe si farebbe giustizia e metterebbe in pratica le sue crudeltà".

"...dobbiamo al cristianesimo, nel governo un certo diritto politico, e nella guerra un certo diritto delle genti, di cui l'umanità non potrebbe mai essere abbastanza riconoscente."

Occorre invece  che tutti, cristiani compresi, valutino responsabilmente, per quanto possibile, le conseguenze delle proprie decisioni ed azioni. Tale esercizio di responsabilità preclude la confusione tra la missione della Chiesa e i compiti dello stato. L'imposizione a questo dei fini e dei principi che guidano quella rischia spesso di aggravare la povertà e la sofferenza che tutti vogliono ridurre. Lo stesso Tocqueville, vicino al Cattolicesimo ed ammiratore del Cristianesimo, adottò questo  atteggiamento. Nel suo Saggio sulla povertà scrisse infatti:

"Non c’è, a prima vista, un’idea che sembri più bella e più grande che quella della carità pubblica".

 " L’uomo, come tutti gli esseri organizzati, ha una passione naturale per l’ozio. Ci sono pertanto due motivi che lo portano al lavoro: il bisogno di vivere e il desiderio di migliorare le condizioni della sua esistenza".

"Ora, un’organizzazione caritatevole, aperta indistintamente a tutti coloro che sono nel bisogno, o una legge che dà a tutti i poveri, qualunque sia l’origine della loro povertà, un diritto al soccorso pubblico, indebolisce o distrugge il primo stimolo al lavoro e lascia intatto soltanto il secondo".

"Ma sono profondamente convinto che tutto il sistema legislativo, permanente, amministrativo, il cui scopo sarà di provvedere ai bisogni del povero, farà nascere più miserie di quelle che può guarire, depraverà la popolazione che vuole soccorrere e consolare...".

sabato 11 gennaio 2014

Crisi italiana. Produrre meglio per produrre di più.



Il 20 dicembre a Roma in una conferenza organizzata dall'Istituto Affari Internazionali  tra  gli altri è intervenuto Lorenzo Bini Smaghi, ex membro del comitato esecutivo della Banca centrale europea .
Bini Smaghi ha denunciato l'incertezza di politica economica che ostacola gli investimenti e sottolineato la portata della insufficiente produttività che segna l'economia italiana. Il nostro paese perde così quote di export. La mancata crescita è imputabile a vizi strutturali.





Su lavoce.info il professor Fabiano Schivardi ha scritto:

"...il nostro paese è in ritardo nella diffusione delle “best practices”. La sfida della competitività si vince innovando non solo i prodotti, ma anche il modo in cui sono organizzati gli stabilimenti. Opporsi ai cambiamenti significa condannare la manifattura italiana a un declino inarrestabile. È compito della politica fornire un quadro normativo adeguato alla gestione efficiente dei rapporti di fabbrica, a partire dalla riforma del sistema di rappresentanza".

Non basta però una riforma dei rapporti di fabbrica. Le imprese italiane spesso sono sottocapitalizzate, hanno dimensioni inadeguate, mantengono relazioni clientelari con il potere pubblico, non applicano criteri meritocratici, non ricevono dal sistema scolastico giovani preparati, devono fare i conti con infrastrutture scadenti.
Ma anche queste misure strutturali non garantiscono la ripresa dell'occupazione. Lavorare meglio può voler dire lavorare in meno.  Per questo occorre esplorare e valorizzare ogni nicchia, vocazione e potenzialità del panorama produttivo italiano. Lo sviluppo dei servizi non esclude quello della manifattura di qualità. Il successo della filiera agricolo-alimentare deve esaltare la vocazione turistica di territori e città d'arte.
Questa è la via da imboccare con coraggio, abbandonando ogni sterile illusione, non attribuendo ad altri colpe, vizi e ritardi che sono invece degli italiani.


venerdì 3 gennaio 2014

Mazzini e il fascismo italiano. Una contiguità da esplorare.



Bertrand Russell, nato nel 1872 e morto nel 1970, pur avendo esercitato una profonda influenza sulla filosofia del Ventesimo secolo, per educazione e formazione intellettuale è da considerare un uomo del secolo precedente. Conosceva a fondo le idee del Diciannovesimo secolo. Ne diede conto in una delle sue migliori opere divulgative: Freedom and Organization (1934), in italiano Storia delle idee del secolo XIXRussell, che soggiornò in Italia e sapeva l'italiano, qui delineò il pensiero di Giuseppe Mazzini, uno dei padri del Risorgimento italiano:

""La nazionalità" diceva "è per me santa, perchè io vedo in essa  lo strumento del lavoro per il bene di tutti, pel progresso di tutti".
"Dio ha scritto una linea del suo pensiero al di sopra d'ogni culla di Popolo...interessi speciali, attitudini speciali, e, soprattutto, speciali funzioni, una speciale missione da compiere, uno speciale lavoro da fare, per la causa del progresso dell'umanità, sembrano a me le vere caratteristiche della nazionalità".
Una nazione era per lui non un puro aggregato di individui, ma una entità mistica con un'anima sua.
"...il semplice voto di una maggioranza non costituisce sovranità, se avversi evidentemente le norme morali supreme... la volontà del popolo è santa, quando interpreta e applica la legge morale...". Queste dottrine sono state accolte e attuate da Mussolini." (op. cit., 1968, pp. 513, 514 e 517)
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Russell intuì la contiguità tra la visione di Mazzini ed il fascismo italiano. Significativi in questo senso gli scritti autobiografici di due dei principali esponenti del movimento fascista e  del regime mussoliniano: Giuseppe Bottai, padre della dottrina corporativa, ministro delle corporazioni e dell'educazione nazionale, e Dino Grandi, ministro degli esteri e della giustizia, ambasciatore a Londra.

Giuseppe Bottai:

"In casa mia si parlava spesso di repubblica, di Mazzini..." (Diario 1935 -1944, 1994, p. 38).

Dino Grandi:

"Mio padre si proclamava monarchico, ma adorava Mazzini... Credo di essere... uno dei pochi italiani della mia generazione che abbia letto, o per lo meno sfogliato, per intero i moltissimi volumi delle opere di Mazzini" (Il mio paese. Ricordi autobiografici, 1985, p. 21).

"Da principio ho venerato Mazzini, ma poi, a 30 anni, mi sono innamorato di Cavour e ciò per tutta la vita" (25 luglio. Quarant'anni dopo, a cura di Renzo DE FELICE, 1984, p. 141).

I due più lucidi, colti e intelligenti gerarchi fascisti ricordano la loro formazione mazziniana. Per Grandi arriva presto il consapevole passaggio ad un sostanziale, a lungo clandestino, liberalismo. Esso è segnato appunto dall'innamoramento per Cavour e dalla fine della venerazione di Mazzini.
Con la caduta del regime mussoliniano Mazzini non solo resta tra i padri della patria ma viene collocato tra quelli della nuova democrazia. Una democrazia purtroppo senza influenti e genuini padri liberali.


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