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venerdì 14 marzo 2014

Ucraina. Scontro di debolezze.




Mentre la crisi russo-ucraina sembra aggravarsi è opportuno dar conto  di alcuni lucidi interventi fuori del coro, che indicano prospettive di analisi e linee di condotta in larga misura condivisibili.
Su affarinternazionali.it  l'11 marzo 2014 il generale Vincenzo Camporini ha scritto:

"La Russia di Putin, che si sente l’erede di una storia millenaria, non è solo l’epigono dell’Unione Sovietica ma continua ad essere il paese più grande del mondo in termini di superficie, e non vuole essere schiacciato a occidente e a oriente da potenze che non riuscirà mai a percepire come amiche, anche perché consapevole delle sue insuperabili debolezze strutturali, dalla demografia in discesa al fatiscente quadro industriale, che non consentono alla dirigenza di Mosca di guardare con ottimismo alle decadi future. Ne consegue l’ansia di circondarsi di una fascia di paesi in qualche modo legati da un vincolo che, a seconda del punto di vista, si può definire di amicizia o di vassallaggio..."

"Quanto accaduto negli ultimi anni e in particolare negli ultimi mesi in Ucraina ha fortemente alimentato le preoccupazioni russe, con una spaccatura tra due fazioni che si sarebbe dovuta evitare e le cui colpe possono essere equamente distribuite: da un lato chi sogna un’impossibile riunificazione con Mosca, percepita come Grande Madre ed a cui è pesantemente legata, non fosse altro che per le forniture energetiche, dall’altro chi invece guarda all’Occidente come il solo attore che possa offrire una prospettiva di futuro sviluppo e di apertura di mercati che possa far rinascere un’economia ansimante. Due visioni percepite come confliggenti e mutuamente esclusive.
L’errore di entrambe le parti, Occidente e Russia, è stato quello di alimentare queste visioni senza cercare sagacemente una sintesi che avrebbe potuto, e potrebbe ancora, portare al superamento di queste opposte visioni: un grave errore, alimentato dalle reciproche diffidenze antiche di quasi un secolo cui è tempo di rimediare.
Non è obbligatorio che Kiev stia da una parte o dall’altra: bisogna trovare una via di mezzo che salvaguardi gli obiettivi a breve di entrambi e costituisca inoltre il fondamento di una futura collaborazione strategica che è storicamente indispensabile, per essere pronti ad affrontare con successo le sfide poste dell’emergere di culture e potenze la cui compatibilità con la visione del mondo che ci appartiene è dubbia e tutta da dimostrare". 

"È illuminante l’articolo di qualche giorno fa di Hanry Kissinger sul Washington Post, che sollecita un approccio mirato a attenuare le contrapposizioni interne all’Ucraina, mettendo da parte qualsiasi ipotesi di una sua adesione alla Nato che sarebbe inevitabilmente percepita da Mosca come atto ostile, ma aprendo a un rapporto più stretto con l’Unione europea, secondo uno schema che è stato definito di ‘finlandizzazione’ dell’Ucraina e che ha il potenziale di trasformare Kiev da terreno di scontro della opposte ambizioni (interne ed esterne), a ponte ideale tra Occidente e Mosca, su cui costruire un rapporto basato sulla fiducia e non sulla diffidenza. 
Non è una via agevole, anche perché presuppone una convincente azione di ‘moral suasion’ su chi oggi detiene le leve del potere in Ucraina, come su chi soffia sul fuoco delle tendenze separatiste, ma è una via che deve essere seguita con determinazione, in quanto figlia di una visione sensata e fattibile su cui si deve investire, in modo che da questa partita tutti possano uscire come vincitori".

L'analisi di Camporini  presenta significativi punti di contatto con altri autorevoli interventi.
Il 3 marzo 2014 Neil Melvin su sipri.org ha così commentato la situazione:

"While the origin of the crisis lies in the confrontation between ousted Ukrainian President Viktor Yanukovych and an opposition movement protesting against what it saw as a corrupt and illegitimate government, the catalyst for the violence has been the geopolitical struggle for Ukraine that has been played out over recent years between the transatlantic community and Russia.
Competition between the integration projects of the European Union (EU), in the form of its proposed Association Agreement with Ukraine, and Russia, through its Customs Union, has served to destabilize the delicate east-west balance in Ukrainian foreign and security policy and, thereby, put pressure on the fragile regional, linguistic and ethnic mosaic that makes up contemporary Ukraine".

Melvin sottolinea la portata della contesa geopolitica per l'Ucraina tra Occidente e Russia e il ruolo destabilizzante dei contrapposti progetti di integrazione. Da segnalare anche, su nationalinterest.org, l'attenta analisi proposta da Dimitri K. Simes e Paul J. Saunders:

 "Once the protests began, the administration essentially abandoned its efforts to persuade Russia that Ukraine’s Western orientation would be “win-win” and instead supported a “winner-takes-all” approach..."

" After Russian forces established control in Crimea, Obama returned to a policy process that has already failed repeatedly elsewhere: 1) make bold and moralistic pronouncements, 2) put America’s prestige and credibility on the line, and 3) produce no real policy. U.S. policy toward Syria has been the most visible and damaging application of this approach so far, but it is far from the only one. This is how an administration that entered office determined to rebuild America’s image has instead further marred it, discouraged allies, and emboldened foes—grand talk and no action. The administration’s peculiar combination of Bush-era self-righteousness with Obamian instinctive caution, whether through analysis-paralysis or simple timidity, offers the worst of both worlds".

"In the end, China’s rise is much more significant than Crimea’s fate, and the United States should avoid reacting to the Ukraine crisis in ways that could severely undermine its ability to manage this paramount priority. China and Russia are not allies today and Beijing will not publicly support Crimea’s self-determination, something that Chinese leaders clearly see as contrary to their view of their own country’s territorial integrity. Nevertheless, there is little doubt about Beijing’s views of who is to blame for the crisis in Ukraine—the West—or about China’s sympathy for Moscow. Leaving Moscow no alternative to a far stronger relationship with Beijing, possibly including new high-tech arms sales and even diplomatic support of China’s territorial claims, would be a Pyrrhic victory. Perversely, efforts to displace Russia’s gas exports to Europe, which current events are likely to accelerate, may make Russian-Chinese deals more likely by putting new pressure on Gazprom to accept the lower prices China is offering. As Henry Kissinger recently wrote, the administration should remember that “the test of policy is how it ends, not how it begins.”".

"Finally, Washington should think long and hard about America’s complex relations with China. If necessary, the United States can confront either Moscow or Beijing, but the U.S. should avoid a simultaneous break with both—something much more difficult to manage. We cannot afford further missteps.
Finally, we must keep a sense of perspective about Russia. Vladimir Putin may have seized Crimea, but he is not Adolf Hitler. History rarely repeats itself. Still, 2014 looks less like 1939 than 1914. In the decade preceding World War I, Russia was weakened by the 1904-05 Russo-Japanese war and its 1905 revolution, and consequently accepted several humiliating setbacks in the Balkans at the hands of the Austro-Hungarian Empire and Imperial Germany. In response, Tsar Nicholas II decided to consolidate his alliance with Britain and France and to modernize the Russian army. Moscow finally took a stand in August 1914, surprising Kaiser Wilhelm and Emperor Franz Joseph, who thought that Russia would not dare to call their bluff. Indeed, the resulting war was suicidal for Russia and its Tsar, but Nicholas took Germany and Austria-Hungary down the drain with him. In an era before nuclear weapons, millions of Europeans died. And the war’s apparent winners—Britain and France—soon faced terrible new challenges".

Due "tigri di carta" si contrappongono. Gli USA di Obama sono fiaccati dal consumo a debito, dal fallimento delle principali agenzie educative, dalla caduta dell'etica del lavoro e della responsabilità. Solo il rapido incremento della produzione di shale gas/oil compensa parzialmente  le insufficienti prestazioni del sistema.
La Russia di Putin è segnata da una tendenza demografica sfavorevole, dalla bassa produttività, dall'eccessiva dipendenza dall'esportazione di armi, materie prime, gas naturale e petrolio, dalla presenza di una sempre più numerosa popolazione islamica.
Questi due giganti malati, nessuno dei quali è più avvelenato da ideologie totalitarie, non hanno nulla da guadagnare da una prolungata lotta. O vincono o si indeboliscono ancora entrambi. La nuova superpotenza cinese e il fondamentalismo islamico sarebbero i veri vincitori di una contesa geopolitica senza valide ragioni, tale da evocare non Danzica ma Sarajevo.


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