Translate

sabato 26 dicembre 2015

Dove va la Cina? Crisi profonda, crollo improbabile.




 AsiaNews.it del 23 dicembre 2015 presenta un'analisi impietosa della Cina, a firma di John Ai:

"Secondo il China Labour Bulletin, Ong sindacale con base a Hong Kong, il numero di scioperi e proteste sul lavoro ha toccato nel novembre 2015 il massimo storico. L’aumento di questi fenomeni, la chiusura delle fabbriche e la fuga dei dirigenti sono collegati con il costante rallentamento del manifatturiero in Cina. La domanda e le esportazioni calano, i boss con problemi finanziari rifiutano di pagare i salari (oppure spariscono) e i manifestanti vengono considerati “fonte di problemi” e arrestati. Le autorità danno sempre la priorità alla stabilità".

"Ma nel 2010 la Banca centrale cinese ha stretto le sue politiche monetarie: le compagnie hanno iniziato a soffrire per la mancanza di liquidi e si sono rivolte al sistema delle “banche-ombra”, che hanno tassi di interesse molto più alti. Questo ha causato un aumento di debiti insanabili e scatenato la fuga degli imprenditori. L’usura ha distrutto le aziende. Secondo l’Ufficio statistico di Wenzhou, il numero di imprese con un giro d’affari superiore ai 20 milioni di yuan si è attestato nel 2014 a 4.366 unità: un calo sensibile rispetto alle 8.096 del 2010. Il tribunale locale comunica di aver aperto più casi di bancarotta nel 2015 che nel 2014".

"Mentre il manifatturiero rallenta, la speculazione in Borsa diviene frenetica. L’ottimismo generale dell’inizio del 2015 rispetto al mercato finanziario non è durato molto. Il boom accompagnato dall’incoraggiamento dei media statali è esploso il 12 giugno. Il governo ha preso misure urgenti per fermare il crollo, fra cui la sospensione delle prime offerte di pubblico acquisto, e ha proibito la vendita a corto raggio costringendo le compagnie statali a ricomprare le proprie azioni. Ma il 24 agosto 2015 la Borsa di Shanghai ha perso comunque l’8,48%, dato peggiore dal crollo del 2007".

"Era inevitabile, ma l’era della crescita annuale oltre il 10% è passata. In questi anni di “nuova normalità”, termine scelto da Xi Jinping per descrivere il rallentamento della crescita, l’economia cinese dovrà sperimentare le durezze della ristrutturazione, che porterà con sé un divario ancora più profondo fra ricchi e poveri, disoccupazione e problemi ambientali".

"Dall’epoca delle riforme e delle aperture, la crescita economica ha mantenuto la legittimazione del Partito comunista. La trasformazione industriale e la ristrutturazione dell’economia colpiranno il mercato del lavoro, dove milioni di universitari laureati rappresentano una nuova sfida. Internet diffonde le notizie e velocizza la consapevolezza della popolazione. Da quando Xi Jinping ha preso il potere le autorità hanno stretto il controllo sulla società: sempre più avvocati vengono arrestati e, mentre la gente cerca pace nelle religioni, il governo cerca di frenarle".

"Si rafforza anche la censura su internet. Il controllo totale sulla società mostra la preoccupazione delle autorità riguardo a possibili agitazioni popolari. A settembre 2015, il membro del Politburo Wang Qishan ha per la prima volta affrontato in maniera aperta la legittimità del Partito. Anche se i media ufficiali hanno dipinto questo intervento come “epocale” e “una manifestazione della fiducia del Partito in se stesso”, esso riflette anche la consapevolezza dei rischi potenziali e delle crisi che potrebbero arrivare". 

Vengono al pettine i nodi di una globalizzazione disordinata e tumultuosa, che ha visto capitalismo del risparmio e del debito evolvere ed interagire in modo disomogeneo  e devastante. In Cina principi socialisti, mercato, intervento pubblico, tradizioni ed egemonia del partito comunista hanno determinato una crescita economica senza precedenti, segnata da contraddizioni e criticità difficili da sanare.
La crisi del modello cinese, efficacemente illustrata nell'articolo di Ai, spaventa osservatori e operatori, ma non vanno sottostimati i fattori che rendono improbabile  un crollo. Il welfare è corto e relativamente poco costoso. Ha un preciso fondamento nell'art. 42 della costituzione vigente, che ne delimita l'ampiezza fissandone la dipendenza dallo sviluppo della produzione:

"Citizens of the People’s Republic of China have the right as well as the duty to work.
Through various channels, the State creates conditions for employment, enhances occupational safety and health, improves working conditions and, on the basis of expanded production, increases remuneration for work and welfare benefits".

Si tratta di un assetto contestato, ma la memoria generazionale opera ancora tutto sommato a suo favore. Sono molti i cinesi che hanno sperimentato la povertà assoluta e le durezze della Rivoluzione culturale e del regime maoista. Questi e i loro figli sono disposti a tollerare difficoltà che a noi sembrano intollerabili. Inoltre esercita tuttora un ruolo importante il nazionalismo. Il diffuso sentimento patriottico può determinare una maggiore tenuta del sistema.
Vedremo se i governanti sapranno controllare una situazione che rischia di sfuggire di mano. Ben difficilmente tenteranno di introdurre istituzioni che ai loro occhi hanno fallito nelle democrazie occidentali e possono compromettere l'egemonia del Partito comunista, potendo invece trarre ispirazione da un modello di successo vicino anche sotto il profilo culturale: Singapore.

domenica 20 dicembre 2015

Crisi. La vittima più importante è il realismo.




Secondo il Vocabolario della lingua italiana di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli il realismo è il senso della realtà nella sua concretezza. Solo apparentemente ne dà prova la scrittrice spagnola Almudena Grandes in una recente intervista pubblicata da Linkiesta.it:

"Dice che questa crisi è come una guerra e che gli spagnoli hanno perso. Perché?

È diversa dalle altre crisi del capitalismo. Normalmente chi soffriva apparteneva sempre alle classi più umili. Questa crisi, eccetto gli ultra ricchi, ha invece colpito tutti, indiscriminatamente. Per questo credo sia una guerra. È stata devastante, crudele. E abbiamo perso.

Cosa esattamente?

I nostri diritti, la nostra libertà

Nessuna speranza per il futuro?

Sono un'ottimista congenita. Lotto tutti i giorni con il pessimismo di questi tempi. Penso che la speranza ci sia, ma per cosa? Per vivere come prima? No. Per cambiare Iphone due volte l'anno? No. Per comprarci l'Audi uguale a quella del vicino? No. Bisogna rompere il binomio felicità/consumismo. Se continuiamo ad essere legati alla ricchezza siamo persi. Gli spagnoli sono stati sempre un popolo povero, ma la povertà fino a poco tempo fa non era umiliante, colpevole, non faceva vergogna. Faceva parte dello scenario della vita. E la vita era lottare. Se non avessimo perso questa tradizione, quella dei nostri nonni che vivevano con dignità anche con poco, saremmo molto più forti e capaci di andare avanti".

Grandes si fa portavoce dei tanti colpiti dalla crisi e delusi dai governi che si succedono, ma manca la consapevolezza del percorso che ha condotto alle attuali difficoltà. Nei paesi per primi giunti al benessere l'allargamento dei compiti dello stato, l'aumento della spesa pubblica e della pressione fiscale,  il venir meno dei più efficaci stimoli all'impegno individuale, la disastrosa propensione al debito, l'immigrazione fuori controllo e la competizione con nuove economie non appesantite da questi fardelli hanno determinato una riduzione degli investimenti privati e della offerta di buona occupazione.
Una anche superficiale attenzione alla realtà consentirebbe di cogliere i motivi delle nostre difficoltà come produttori e la stretta relazione tra queste e i problemi che ci assillano come consumatori. Ma tutto spinge in un'altra direzione. Le aspettative individuali, le irresponsabili dichiarazioni dei politici, il servilismo dei media e l'inadeguatezza degli intellettuali insieme alimentano la bolla più pericolosa, quella delle illusioni.

domenica 13 dicembre 2015

Occupazione USA. Chi è bravo in matematica?



L'occupazione USA delude le aspettative. Nel 2015 è rimasta ferma poco sopra il 59%, significativamente lontana dai livelli pre-crisi, non corrispondendo alle speranze soprattutto nel settore manifatturiero, tra i pochi in grado di dare molto lavoro di buona qualità. Le ragioni di queste difficoltà sono diverse, ma va sottolineato il ruolo del capitale umano. In Italia la sua importanza è stata recentemente ribadita dal professor Luca Ricolfi, che così ha delineato i grandi fattori della crescita economica nel suo L'enigma della crescita:

"...la qualità del capitale umano  - in particolare sotto forma di padronanza delle conoscenze di base in matematica e scienze - è la forza fondamentale che può sostenere la crescita dei paesi OCSE".

"La seconda forza fondamentale è il saldo degli "investimenti diretti esteri"".

"La terza forza è la qualità delle "istituzioni economiche"..., ossia il fatto di avere buone regole di funzionamento dell'economia".

"La quarta forza fondamentale sono le "tasse",... il cui ruolo è però negativo, di rallentamento della crescita" (Op. cit., 2014, p. 46 e seg.).

Infatti negli Stati Uniti le competenze matematiche e scientifiche, come risulta dalle indagini PISA, sono tra le più basse rilevate nei paesi OCSE. Questo capitale umano, insieme ad altre insufficienti premesse, non consente un ampio incremento della manifattura di qualità. Si tratta di un deficit difficile da colmare. La scuola pubblica è in crisi, mentre aspirazioni e stimoli individuali spingono in altre direzioni.
Le misure adottate dalle banche centrali hanno tenuti bassi i tassi di interesse, premiando i cattivi debitori, non frenando l'incontrollato e devastante sviluppo del capitalismo del debito. Nessun incisivo intervento invece sui fattori di uno sviluppo sano e sostenibile, capace di dare buone occasioni di lavoro. Misure di questa efficacia  possono essere adottate solo da governi lungimiranti, sostenuti da una opinione pubblica educata e informata. Oggi cattivi governi e cattivi elettori prevalgono, prodotti dal declino dell'educazione e dell'istruzione. Una inversione di rotta sembra improbabile.

domenica 6 dicembre 2015

Dalla battaglia di Canne ai Balcani e alla Siria. Pensare la violenza.





Nel corso della Seconda guerra punica (216 a.C.) in Puglia, a Canne, l'esercito romano fu sconfitto da quello cartaginese. Una strage dai numeri impressionanti: tra i romani e i loro alleati italici i morti furono probabilmente quaranta - cinquanta mila. Una Italia allora popolata da meno di sei milioni di abitanti vide morire in quella battaglia quasi un italiano su cento, donne e bambini compresi.
Su Analisi Difesa del 3 dicembre 2015 il generale Leonardo Tricarico ha scritto:

" I meccanismi decisionali sulla legittimità degli obiettivi prima e sul tipo di intervento poi, sono tuttora fattori tranquillizzanti che la forza della Nato (o da essa guidata) sia applicata nella misura minima indispensabile e nel rispetto dei principi umanitari da tutti condivisi ma sempre meno rispettati. Nei Balcani nel 1999, con questa filosofia, si registrarono "solo" 370/430 vittime innocenti dopo ben 30.004 missioni di bombardamento, perdite tutte causate da malfunzioni dei sistemi d'arma o, in un paio di casi, da intelligence inaccurata. Mai però da indisciplina, negligenza o trasgressione delle regole di contenimento del danno".

" Oggi invece nei filmati diffusi dai russi stessi dopo i bombardamenti in Siria, a fine settembre, si notano chiaramente gli impatti di alcune Cluster Bombs (le bombe a grappolo, messe al bando da larga parte della comunità internazionale) o lo sgancio in quantità di bombe da 2000 libbre senza alcuna unità di guida, cioè il dispositivo che assicura la precisione all'impatto. 
Si torna insomma, seppure in scala limitata, a "radere al suolo" più che a intervenire chirurgicamente, e ciò che è più disdicevole è che lo si fa per contenere i costi dei bombardamenti e non per l'indisponibilità della tecnologia di precisione. Anche altri paesi non sembrano più molto attenti alla questione. Gli stessi Stati Uniti si lasciano andare talvolta a tragici errori (vedasi la strage dell'ospedale di MSF (Medicins Sans Frontieres) a Kunduz del 3 ottobre, frutto di una serie di errori, compreso il cattivo coordinamento tra l’aereo e le forze speciali sul terreno) o danno l'impressione di avere il grilletto facile".

"Oggi più che in passato, la tentazione di risolvere con le armi questioni che in senso stretto non sono catalogabili come guerra è costantemente dietro l’angolo. Nel contempo manca la percezione che anche la coalizione militare più vasta, determinata e coesa non sarebbe in grado di venire a capo di operazioni belliche a causa di una dottrina di impiego della forza inadatta a colmare le asimmetrie tra un esercito regolare e forze di diversa natura, quali le formazioni terroristiche. Prima di avventurarsi in altre iniziative conflittuali fallimentari, va pertanto fatta una riflessione collettiva sugli aspetti tecnici, giuridici ed etici che contraddistinguono gli scenari  che ormai si ripresentano  con le medesime caratteristiche ed in termini sempre più drammatici  in diverse aree geografiche". 

Da un professionista della violenza arriva una lucida riflessione sui suoi limiti, mezzi e obiettivi. Se non si può accogliere un pacifismo assoluto, che pone le premesse della guerra o di una pace disumana, si deve però accettare la violenza senza rinunciare alla ragione e all'umanità.  La differenza è fatta da valori e intelligenza, non solo e non tanto dagli strumenti.

domenica 29 novembre 2015

QE. La liquidità in trappola.




Su Il Sole 24 ORE del 23 novembre 2015 Vito Lops esamina le difficoltà del quantitative easing europeo:

" Leggendo il bilancio della Bce emerge che le banche dell’Eurozona hanno parcheggiato presso la Bce l’80% della liquidità immessa attraverso il «Qe». Come riporta uno studio di Lyxor, difatti, la gran parte della liquidità del «Qe» non è stata ancora utilizzata".

"Ma, a quanto risulta, le banche private preferiscono restare sedute su una pila di costosi contanti parcheggiati presso la Bce, piuttosto che iniettarli nell’economia reale completando così la cinghia di trasmissione". 

"In realtà non ce la si può prendere con le banche europee. Queste siedono sì su una montagna di liquidità inutilizzata ma devono anche fare i conti con una montagna di crediti deteriorati da smaltire (solo le banche italiane ne hanno in pancia circa 200 miliardi). La verità è che gli ultimi anni di crisi hanno deteriorato il rating medio (livello di solvibilità) di famiglie e imprese europee e quindi gli istituti, pur essendo spronati in tutti i modi dalla Bce ad erogare, lo stanno facendo in modo molto prudenziale, proprio per non accrescere la quota di crediti deteriorati".

"Se poi si osserva lo stock di mutui e non solo il flusso delle nuove erogazioni, rispetto all’anno scorso è rimasto praticamente invariato: quindi i nuovi mutui sono andati a compensare quelli che si sono estinti".

"Situazione ancor più problematica per quanto riguarda i prestiti alle imprese. Il fatto che l’80% della liquidità pompata dalla Bce esca dalla porta ma rientri dalla finestra fotografa semplicemente che l’economia dell’ Eurozona non è in grado di assorbirla per buona parte, che imprese e famiglie dopo anni di crisi hanno un livello di affidabilità inferiore rispetto al passato".

L'esito fallimentare era prevedibile: nell'economia globale i produttori italiani perdono la sfida lanciata da altre aree. I motivi sono noti. Pressione fiscale e contributiva insostenibile, burocrazia, capitale umano inadeguato, insufficienti stimoli all'impegno individuale, incertezza del diritto penalizzano le imprese, allontanano gli investitori privati e ostacolano la ripresa dell'occupazione. 
Qualora, saltando ogni mediazione, si trasferisse direttamente nelle tasche di imprenditori e altri consumatori la liquidità creata dalla BCE, l'economia reale non ne trarrebbe significativi vantaggi. Sarebbero infatti acquistati soprattutto prodotti e servizi esteri, più convenienti. L'eventuale aumento dell'inflazione colpirebbe le fasce più deboli della popolazione.
Occorre abbattere spesa pubblica e pressione fiscale, ridurre la burocrazia e aumentare l'efficienza della pubblica amministrazione, dare un assetto produttivistico al welfare e alle regioni rendendoli sostenibili, incrementare certezza e semplicità del diritto, aggredire la criminalità organizzata, migliorare il capitale umano diffondendo le competenze  matematiche, tecniche e scientifiche, regolare i flussi migratori, rendere effettiva la concorrenza interna in ogni settore.
Di questo ha bisogno l'economia reale. Però i governanti sono stati eletti da un blocco elettorale in cui pensionati, dipendenti pubblici e beneficiari di grandi e piccoli privilegi esercitano un ruolo decisivo. Non prenderanno le misure necessarie ma capaci di irritare la loro base elettorale.

sabato 21 novembre 2015

Scienza e società aperta. Comprendere l'impresa scientifica.





In questi giorni in cui il terrore invade la cronaca si sente spesso un'affermazione suggestiva ma oggi lontana dalla realtà: il terrore si fronteggia con la cultura. La vuota retorica che segna tale affermazione si coglie considerando da un lato la necessità di misure militari e di polizia, dall'altro l'inadeguatezza del dibattito pubblico e dell'offerta culturale.
Sui media si parla di scienza senza indagare criticamente i suoi successi, le sue rivoluzioni, i suoi fallimenti. Descrivere l'impresa scientifica, frutto migliore del pensiero, significa invece dar conto della fallibilità e della grandezza umana, delle condizioni che rendono possibile il progresso civile ed economico, dell'importanza delle tradizioni, del ruolo delle idee e della libertà. In questo senso è da accogliere ciò che ha scritto Karl Popper:

"Una società aperta, cioè una società basata sull'idea che non solo si deve tollerare le opinioni dissenzienti, ma le si deve anche rispettare, e una democrazia, cioè una forma di governo votata alla protezione della società aperta, non possono fiorire se la scienza diventa il possesso di un circolo esclusivo di specialisti" (Karl POPPER, Scienza e filosofia. Problemi e scopi della scienza, 1984, p. 158).

Da leggere, cominciando dall'ottima introduzione alla materia di David Oldroyd:

- D. OLDROYD, Storia della filosofia della scienza

- K. POPPER, Congetture e confutazioni

- K. POPPER, Scienza e filosofia

- K. POPPER, La ricerca non ha fine

- K. POPPER, Il mito della cornice

- I. LAKATOS, La metodologia dei programmi di ricerca scientifici

- T. S. KUHN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche

- P. K. FEYERABEND, Ammazzando il tempo. Un'autobiografia

- I. LAKATOS - P. FEYERABEND, Sull'orlo della scienza

- I. LAKATOS - A. MUSGRAVE (a cura di), Critica e crescita della conoscenza

domenica 15 novembre 2015

Italia. Tra il dire e il fare gli ordini di grandezza.

IL re è nudo.

Su Il Sole 24 ORE dell'8 novembre 2015 Luca Ricolfi riflette sui numeri della crisi italiana e sull'adeguatezza delle misure proposte. Gli interventi devono essere commisurati alla gravità dei problemi.

"In questo balletto degli zero-virgola, quel che si rischia di perdere è la percezione dell’effettivo ordine di grandezza dei cambiamenti di cui si parla e, soprattutto, dei cambiamenti che sarebbero necessari. I paesi che hanno cambiato qualcosa nei propri fondamentali non hanno spostato qualche decimale, ma hanno spostato qualche punto nelle grandezze chiave: una riduzione della spesa, o della pressione fiscale, o del deficit, comincia ad essere apprezzabile, ossia incisiva, quando è di almeno 1 punto di Pil".

"Insomma, mi spiace metterla in modo così crudo, ma qui stiamo parlando di “quisquilie e pinzillacchere”, per dirla con Totò".

"Ma il bilancio è magro anche per una ragione più fondamentale, cui l’ottimismo governativo pare del tutto insensibile: i posti di lavoro che ci mancano sono circa 7 milioni. Un milione perché tanti ne abbiamo persi durante la lunga crisi del 2007-2014, e altri 6 milioni perché questa, già prima della crisi, era la nostra distanza dalla normalità, ossia dal tasso di occupazione medio dei paesi Ocse. E 7 milioni di posti fanno qualcosa come 10 punti in più nel tasso di occupazione. Ecco perché, quando vedo presentato come un grande risultato un aumento di qualche decimale del tasso di occupazione, o un aumento di qualche decina di migliaia di posti nel numero di occupati, penso che abbiamo smarrito il senso degli ordini di grandezza. A questo ritmo, e sempre che non intervengano nuove crisi e battute d’arresto, saremo un paese normale fra circa 30 anni, quando Renzi avrà superato i 70. Possiamo aspettare tutto questo tempo?".

L'inadeguatezza delle misure proposte e del dibattito pubblico emerge chiara considerando l'ampiezza dei problemi. L'inadeguatezza è del resto il segno che contraddistingue oggi governi, notabili ed intellettuali delle democrazie occidentali. Anche il sangue versato in questi giorni a Parigi ne è conseguenza. Tale inadeguatezza è culturale e morale. Non si capisce e non si vuole, ma la realtà spregiata sempre si impone.

domenica 8 novembre 2015

Scuola italiana. Le fragili fondamenta di un paese in declino.





Su Il Corriere della Sera del 6 novembre 2015 Ernesto Galli della Loggia ha denunciato le gravi condizioni in cui versa la scuola italiana. Le grandi agenzie educative che hanno determinato l'affermazione e lo sviluppo delle democrazie occidentali sono state la famiglia, le chiese cristiane e la scuola. Tali agenzie sono oggi in crisi in tutti questi paesi, ma la situazione peggiore è quella dell'Italia. Il declino italiano si spiega anche e soprattutto così. La scuola italiana non è più in grado di educare il cittadino e di formare il produttore. La libertà responsabile e le necessarie competenze matematiche, scientifiche e tecniche non vengono più adeguatamente acquisite dai giovani del nostro paese. Scrive il professor Galli della Loggia:

"Perché da noi il disciplinamento sociale si mostra così debole? Perché da noi non funzionano quei meccanismi che servono a ricordare nelle più svariate occasioni che «non si può fare come si vuole», che ci sono delle regole necessarie alla convivenza per ogni violazione delle quali ci sono delle sanzioni? E perché queste non sembrano preoccupare nessuno? Un principio di risposta va cercato nella crisi profondissima che in Italia ha colpito da decenni (insisto: da decenni) la scuola, la quale - stante il forte indebolimento dell’istituto familiare, dell’influenza religiosa e la fine del servizio di leva - è divenuta da molto tempo l’agenzia primaria se non unica del disciplinamento sociale degli italiani: con esiti che sono sotto gli occhi di tutti". 

"... ormai non sono affatto rari i casi, già nelle scuole medie, non solo di aperta irrisione e insofferenza da parte degli studenti verso gli insegnanti, ma addirittura di minacce e insulti nei loro confronti: e quasi sempre senza che ciò produca sanzioni degne di questo nome (il caso della sospensione inflitta l’altro ieri in una scuola del Torinese a una quindicina di allievi, è la classica eccezione che conferma la regola). Da tempo infatti nella scuola italiana - complici l’aria dei tempi, la voglia di non avere fastidi, l’arroganza di molti genitori inclini a proteggere sempre il «cocco di casa» anche se è un teppista in erba - da tempo, dicevo, domina un permissivismo distruttivo e frustrante".

"Un permissivismo che prende, tra le molte altre, la forma della promozione d’ufficio. Certo, non è scritta da nessuna parte (almeno suppongo), ma di fatto vige la regola che nella scuola dell’obbligo, cioè fino alla terza media, è vietato bocciare. L’effetto di tutto ciò è che in generale il meccanismo didattico risulta privo di quello che da che mondo e mondo è il solo, vero (e infatti altri finora non ne sono stati inventati), strumento di sanzione. Ma ancora più importante, però, è che dominata da un tale meccanismo perverso, la scuola finisce inesorabilmente per perdere ogni reale capacità di insegnare qualcosa...oggi termina la scuola dell’obbligo un grandissimo (insisto: grandissimo) numero di studenti incapaci di scrivere correttamente in italiano, di fare il riassunto di un testo appena complesso, di risolvere un pur non difficile problema di matematica".

"Da almeno due o tre decenni i giovani italiani crescono e si socializzano in questo ambiente scolastico. Qui apprendono che cos’è la cultura, cosa sono le regole, che cosa l’autorità, e che conto tenerne. In piccolo imparano insomma come funziona il loro Paese: ci si può meravigliare se poi, quando crescono, si regolano di conseguenza?".

Parole chiare, largamente condivisibili. Ma ormai si tratta di un danno irreversibile. Come possono insegnanti formati in questo clima trasferire alle nuove generazioni valori e competenze che non hanno?

domenica 1 novembre 2015

Crisi. Le banche centrali e l'economia reale.





Ormai anche sui grandi media che abitualmente lodano l'operato delle banche centrali si fa strada qualche lucida voce critica. Su Il Sole 24 Ore del 28 ottobre 2015 Morya Longo delinea un'economia reale ormai refrattaria agli stimoli monetari:

"Sui mercati finanziari si inizia dunque a dubitare dell’efficacia di questi poderosi sforzi da parte delle banche centrali. Nessuno nega che senza una politica monetaria globale così espansiva oggi la situazione sarebbe molto peggiore, ma tanti iniziano a pensare che ci sia una eccessiva sproporzione tra lo sforzo monetario e il risultato economico raggiunto. Dal 2009 le banche centrali del mondo hanno infatti tagliato i tassi 626 volte e hanno stampato molte migliaia di miliardi di dollari, ma oggi sono ancora costrette a aumentare lo sforzo. Come se non bastasse mai".

"Ecco perché sul mercato inizia a farsi largo la sensazione che crescita, inflazione e lavoro fatichino a riprendersi anche per motivi strutturali, non solo congiunturali. Lo pensa Antonio Cesarano, economista di Mps Capital Market: «Il quantitative easing è un tentativo di rimettere in moto il motore, pur sapendo che qualcosa di strutturale è cambiato»".

"Lo scrive anche Albero Gallo, economista di Rbs: «Se il mercato del lavoro fiacco, i salari polarizzati e la conseguente bassa inflazione sono strutturali, allora gli stimoli ciclici non possono risolvere i problemi». Insomma: se i nodi economici che affliggono il mondo non sono solo legati alla congiuntura ma a fenomeni molto più profondi come la demografia, la globalizzazione e la digitalizzazione, allora non è stampando moneta che si mettono a posto le cose. Magari si evita che peggiorino. Ma senza una efficace politica economica da parte dei Governi, senza uno sforzo strutturale maggiore di quello attuale, non si raggiungono i risultati".

"Questi imprevedibili cambiamenti epocali potrebbero insomma modificare il volto all’economia mondiale e potrebbero rendere strutturalmente vani i super-sforzi delle banche centrali. Il rischio è che combattano contro un nemico diverso dal passato con armi che diventano meno efficaci, creando bolle sui mercati ma modesti risultati sull’economia reale".

Manca nella analisi di Longo un adeguato accenno all'espansione fuori controllo del debito pubblico e privato, fattore scatenante della crisi scoppiata nel decennio precedente.  Ma il richiamo alla situazione dell'economia reale coglie nel segno. Poco o nulla invece sui possibili rimedi. Cosa fare per spingere la grande liquidità che segna i mercati finanziari verso l'economia reale? Come ripristinare  condizioni favorevoli agli investimenti privati? I possibili rimedi sono noti da tempo: ridurre il peso del welfare dandogli un assetto produttivistico, diminuire il perimetro pubblico, la spesa pubblica e la pressione fiscale, rendere effettiva la concorrenza in tutti i settori, diffondere le competenze matematiche, scientifiche e tecniche, regolare i flussi migratori, uniformare le regole per tutti gli operatori, incrementare la certezza del diritto.
Solo i governi possono intraprendere questo difficile percorso. Ma ai probabili vantaggi corrisponderebbe la delusione dei tanti elettori che hanno tratto beneficio da privilegi, credito facile, ingiustificata ampiezza del settore pubblico, speculazione finanziaria, welfare generoso. Un nuovo blocco elettorale, che sorga dall'alleanza tra merito e bisogno, deve imporre una svolta a rappresentanti politici poco inclini a decisioni coraggiose.

domenica 25 ottobre 2015

Democrazia. Cattivi elettori, cattivi governi.



L' Istituto Bruno Leoni lodevolmente presenta un articolo di Diego Gabutti, da Italia Oggi del 20 ottobre 2015, che sui politici democratici cita Jorge Luis Borges:

«Nessun politico può essere una persona onesta. Un politico sta cercando degli elettori e dice quel che gli elettori s'aspettano che dica. La professione dei politici è mentire: Il caso d'un re è diverso. Un re è qualcuno che riceve questo destino, e poi deve compierlo. Un politico no, un politico deve fingere e sorridere, simulare cortesia, deve sottomettersi malinconicamente ai cocktail,agli atti ufficiali, alle ricorrenze patrie. E uno specchio o l'eco di ciò che altri pensano».

Borges coglie un difetto della democrazia che la vizia in profondità, compromettendone spesso l'efficienza. Lucidamente  Karl Popper osservò che il suo grande vantaggio risiede infatti nella possibilità che offre di eliminare i cattivi governi senza spargimento di sangue. Ma cosa si può fare per migliorare le prestazioni dei governanti democratici? Se un politico "dice quel che gli elettori s'aspettano che dica" allora bisogna fare in modo che gli elettori chiedano non illusioni, ma verità, efficienza, responsabilità. Pare insomma fondamentale il ruolo dell'educazione e della formazione del cittadino. Un cittadino educato alla verità e alla responsabilità le pretenderà a sua volta dai suoi rappresentanti. L'importanza dell'educazione è ben sottolineata nel grande pensiero liberale. Karl Popper e Tocqueville la posero al centro delle loro riflessioni, mentre Montesquieu scrisse:

"E' nel governo repubblicano che si ha bisogno di tutta la potenza dell'educazione...la virtù politica è una rinuncia a sè, cosa che è sempre molto penosa. Si può definire questa virtù, l'amore delle leggi e della patria. Quest'amore, richiedendo una preferenza continua verso l'interesse pubblico in confronto al proprio, conferisce tutte le virtù particolari: esse non sono altro che tale preferenza. Quest'amore è particolarmente legato alle democrazie. Soltanto in esse il governo è affidato ad ogni cittadino" (MONTESQUIEU, Lo spirito delle leggi, Capitolo quinto).

Se gli Italiani fossero stati educati e formati adeguatamente avrebbero sommaria consapevolezza, ad esempio, della composizione e dell'ammontare della spesa pubblica, dei numeri dell'occupazione e della pressione fiscale, delle grandezze in gioco. Sorriderebbero dunque delle affermazioni dei loro rappresentanti politici.

domenica 18 ottobre 2015

Israele - Palestina. Sempre più evidente il conflitto religioso.




Maurizio Molinari su La Stampa del 18 ottobre 2015 sottolinea i tratti religiosi dell'Intifada dei coltelli che insanguina Israele:

"Attacchi alla Grotta dei Patriarchi, attentati alla tomba di Simone il Giusto, agguati nei pressi del luogo del primo Tabernacolo, l’incendio alla Tomba di Giuseppe, scontri nella Valle di Kidron e la moschea di Al Aqsa come incandescente contenzioso: l’Intifada dei coltelli ha per protagonisti i luoghi santi assegnando a questa rivolta palestinese un carattere religioso che la distingue dal nazionalismo delle precedenti sollevazioni anti-israeliane, nel 1987 e 2000".

"Il Movimento islamico della Galilea ha creato i gruppi di «Morabitun» - le sentinelle coraniche, divise in unità di uomini e donne - per difendere Al Aqsa dai «sacrilegi» e Hamas ha coniato l’espressione «Intifada di Al Aqsa», con il proprio leader politico Ismail Hanyeh, per impossessarsi dell’intera rivolta".

In realtà tra Israeliani e Palestinesi il conflitto è da sempre anche religioso. Già quando prevalevano leader palestinesi laici e nazionalisti la pace era resa impossibile da fattori religiosi. Nessuno di tali leader poteva rinunciare al ritorno in Israele dei palestinesi usciti dai suoi confini dopo la fondazione del nuovo stato. Ma soprattutto nessun capo palestinese, oggi come allora, anche dalla più tiepida fede islamica, può riconoscere davvero e senza riserve uno stato ebraico che comprenda territori abitati o un tempo abitati da musulmani.
Quella tra Israeliani e Palestinesi è fin dall'inizio una contrapposizione non componibile. Le grandi potenze che hanno consentito ai due nazionalismi religiosi di porre le premesse del conflitto sono responsabili del sangue versato.

sabato 10 ottobre 2015

Crisi. Si salvi chi può, nessuno si salva.




 Phastidio.net, dando conto delle difficoltà dell'Ilva, tocca temi fondamentali per la comprensione della crisi in atto:

"Per l’industria italiana è un momento delicato: perdere l’acciaio equivarrebbe ad un duro colpo al tessuto industriale del paese, oltre che alla nostra bilancia commerciale. Già il fatto che le nostre importazioni di acciaio siano aumentate, nella prima parte dell’anno, del 4,2% dalla Ue e del 32% da extra-Ue è ben più di un campanello d’allarme che rischia di diventare campana a morto, per la fuga di clienti dall’Ilva. Facciamo a capirci: non è che si debba diventare protezionisti, se la propria industria domestica opera con strutture di costo insostenibili. Ma serve comunque essere consapevoli che le condizioni competitive, in alcuni settori globali, non sono un level playing field. , e che dove c’è sovracapacità globale il rischio di esiti traumatici è ancor più elevato. Più in generale, l’intera industria europea farebbe bene a prendere coscienza che la Cina è ormai divenuta “altro”: un po’ meno prateria per la manifattura occidentale, molto più un potente generatore di deflazione globale".

"Le condizioni di ampia e crescente sovracapacità produttiva di molti settori industriali cinesi rappresentano una costante minaccia deflazionistica per l’economia mondiale. I cinesi potrebbero decidere di dare l’assalto ai mercati globali per saturare la propria capacità produttiva, e di farlo con vendite a prezzi inferiori ai costi di produzione, contando sulla presenza pubblica e sui sussidi che essa implica".

" Finché Pechino non gode dello status di economia di mercato nella WTO, è più facile che subisca dazi compensativi da parte di paesi che vogliono difendersi dai tentativi di rottura di prezzo sui propri mercati domestici: diversamente, tutto diverrebbe più difficile".

Sussidi pubblici ai produttori, dazi e svalutazioni compensativi, quantitative easing che sorregge i cattivi debitori. Il generale "si salvi chi può!" si risolve nella generale adozione di queste e altre analoghe misure distorsive che non migliorano stabilmente le condizioni dell'economia reale. Si salvi chi può, ma nessuno si salva davvero.
Occorre invece ripristinare una corretta allocazione delle risorse colpendo la speculazione finanziaria e le forme perverse di intervento pubblico, applicare regole certe e comuni a tutti gli operatori dell'economia globale, riportare l'attenzione dei governi e dell'opinione pubblica sui reali fattori di crescita: investimenti privati, pressione fiscale, peso e obiettivi del welfare, capitale umano, efficienza della pubblica amministrazione.
Sempre più individui e famiglie restano indietro, rischiano l'esclusione. E'fondamentale che la protesta vada nella giusta direzione.

sabato 3 ottobre 2015

QE. Dopo il quantitative easing la crisi diventa più profonda.



Enrico Marro su Il Sole 24 Ore del 28 settembre 2015 offre una buona occasione per riflettere su come è stata affrontata la crisi economica globale:

Paul Marshall "Con una lettera al Financial Times... è entrato con la leggerezza di un bisonte nel dibattito sull’efficacia dei vari Qe mondiali, sempre più controversi perché fanno sentire i loro effetti molto sulla finanza (e sui portafogli dei più facoltosi) e molto meno sull’economia reale (e sui portamonete dei meno abbienti). Oltre a essere qualche volta completamente inutili, come mostra per esempio il caso del Giappone, che dopo aver stampato montagne di denaro si ritrova in deflazione e recessione".

"Oltre a arricchire i ricchi, la droga monetaria delle banche centrali ha poi creato dipendenza, come ha sottolineato tra gli altri Alberto Gallo di RBS in uno studio di qualche giorno fa intitolato “Il paradosso infinito del Qe”. Eh sì, perché lo schema - illustrato plasticamente anche in forma grafica da RBS - è il seguente: il Qe porta a tre effetti collaterali poco desiderabili, cioè una pessima distribuzione della ricchezza, una minor produttività e una serie di crescenti bolle finanziarie difficili da gestire. Quando i nodi vengono al pettine, come se ne esce? Con pesanti e impopolari riforme strutturali, oppure (l’avrete già capito) con un altro bel Qe nuovo di zecca, che dà un calcio alla lattina rimandando il problema. La droga monetaria continua così a fluire nelle vene dei soliti noti di cui sopra, allargando ulteriormente la “forbice” tra ricchi e poveri"".

"Lo strabismo tra i fuochi d’artificio della finanza di Wall Street (con l’indice S&P500 triplicato in sei anni) e il cerino in mano dell’economia reale di Main Street (che cresce a ritmi molto più blandi) è evidente".

Una politica economica, insomma, che ha ulteriormente arricchito ricchi non meritevoli, senza risolvere, anzi aggravando, i problemi dell'economia reale. Le "impopolari riforme strutturali" citate sono quelle dirette a far diventare sostenibile il welfare, ridefinire incisivamente le autonomie locali rendendole compatibili con la situazione delle finanze pubbliche e la competizione economica globale, ridurre largamente la spesa pubblica e la pressione fiscale, migliorare il capitale umano diffondendo le competenze matematiche, scientifiche e tecniche, colpire il capitalismo clientelare, incrementare la concorrenza in tutti i settori.
Il grande inganno è stato far credere che la politica monetaria in corso avrebbe mitigato le difficoltà dei più svantaggiati, giovani e disoccupati soprattutto, mentre invece i beneficiari sono speculatori, grandi debitori gravati di un basso merito del credito, operatori che devono la loro fortuna soltanto alle relazioni con il potere politico. Ora fronteggiare i problemi dell'economia reale è molto più difficile, perché troppa strada è stata percorsa nella direzione sbagliata. Una larga comprensione della situazione costituisce la necessaria premessa di un'azione finalmente efficace.

domenica 27 settembre 2015

Scandalo Volkswagen. Il male non giustifica il peggio.




     Morya Longo su Il Sole 24 ORE del 26 settembre 2015 dà conto delle chiare parole pronunciate a Firenze dal presidente della Banca centrale tedesca Jens Weidmann sullo scandalo che ha colpito la principale industria europea:

"«È stato un errore stupido, che può minare la credibilità del made in Germany». Jens Weidmann, presidente della Bundesbank (la banca centrale tedesca) non si sottrae alla domanda più spinosa per qualunque tedesco: quella sullo scandalo della Volkswagen. Al Teatro Odeon di Firenze, davanti a 800 giovani studenti riuniti dall'Osservatorio permanente giovani-editori, lo dice chiaro e forte: quanto accaduto nella casa automobilistica è stato un errore stupido.
Un errore che potrebbe avere conseguenze serie sull'economia tedesca. Ma i danni – avverte – non si sentiranno solo in Germania: l'economia europea è così interconnessa che gli effetti si vedranno ovunque: anche in Italia o in Spagna. «Quando viene esportata un'auto tedesca – osserva – vengono esportate anche le sue parti fatte in Italia o in altri Paesi». Insomma: lo scandalo è tedesco, ma l'impatto sarà europeo". 

Un grave danno insomma per l'economia della Germania e dell'Europa tutta. Ma merita il più netto biasimo la posizione di chi in Italia tenta di deviare l'attenzione dal disastro morale, politico, economico e finanziario del paese puntando il dito sullo scandalo tedesco. Basti citare le dichiarazioni di Renato Brunetta, da LaPresse.it:

""Dalle stelle alle stalle. Da orgoglio nazionale a problema esistenziale. Il caso Volkswagen è la dimostrazione di come l'egemonia economica (sia sul piano finanziario che su quello industriale) e l'egemonia politica raggiunte dalla Germania, siano in realtà frutto di comportamenti opportunistici. Atteggiamenti spregiudicati basati su imbrogli o forzature. Sul non rispetto delle regole. Le stesse regole, al contrario, rigidamente imposte agli altri Stati membri". Così in una nota Renato Brunetta, presidente dei deputati di Forza Italia. "Diventa ancora più evidente, a questo punto, la necessità della reflazione della Germania - prosegue Brunetta -. Tradotto dal gergo degli economisti: Berlino smetta di accumulare euro con una esportazione esagerata di merci ma, piuttosto, alimenti la domanda interna del ceto medio e operaio, abbattendo le tasse e investendo in infrastrutture. Spenda, invece di rastrellare gli euro degli altri. Cara Angela, adesso i compiti a casa li devi fare tu"".

Un rimedio per l'Italia in declino? Il declino del suo principale partner. Parole sbagliate, fuorvianti, che segnalano la grave condizione in cui versa il centrodestra italiano. Il paese deve fare i compiti a casa, applicandosi con il massimo impegno, ritrovando finalmente la via indicata dalla più genuina tradizione liberale, quella della ristrutturazione del welfare e delle autonomie regionali, della incisiva riduzione della spesa pubblica e quindi della pressione fiscale, della tutela del risparmio, del  lavoro e dell'impresa, del miglioramento del capitale umano, della repressione del capitalismo relazionale e clientelare, del ripristino della concorrenza in tutti i settori.
E' dunque da condannare severamente una tendenza che non sorprende chi conosce il facile opportunismo italiano, quella a giustificare il peggio proprio con il male altrui.

domenica 20 settembre 2015

Italia, il paese delle destre sbagliate.




Ernesto Galli della Loggia su Il Corriere della Sera del 15 settembre 2015 ha scritto:

"Ma un moderno conservatorismo politico è altra cosa. Innanzi tutto è liberale. Cioè in economia è contro ogni strettoia corporativa o monopolistica a vantaggio di gruppi privilegiati e interessi protetti, senza per ciò essere sempre e comunque contro l’intervento pubblico. Ideologicamente, poi, esso dovrebbe essere interessato soprattutto a promuovere e difendere la diversità delle opinioni. Cercando altresì di essere culturalmente anticonformista e quindi simpatizzando con le minoranze e il loro punto di vista: sicché oggi, per esempio, diffiderà dello scientismo e dell’idolatria tecnologica imperanti, così come del pregiudizio egemone secondo cui ogni desiderio soggettivo può diventare un diritto. E si asterrà, naturalmente, dall’omaggio universale a tutte le idee, le mode e le «diversità» politicamente corrette".

Sono considerazioni largamente condivisibili. Ma questa destra virtuosa in Italia non ha mai trovato ampio e durevole spazio non perché, come sostiene lo stesso della Loggia, il conservatorismo italiano sia soltanto nullista, negativo, bensì perchè si è ripetutamente affermata una destra sbagliata, statalista, nazionalista, identitaria. La destra italiana ha fallito perché si è data obiettivi perversi, pericolosi, producendo risultati conseguenti. Invece di Cavour e Giolitti ha scelto Mussolini, dopo De Gasperi e Einaudi ha trovato in Andreotti e Berlusconi i propri campioni.  Ogni paese ha i leader e la destra che si merita, che cultura e visioni diffuse rendono possibili. Così l'Italia continuerà ad avere destre, sempre sbagliate.

domenica 13 settembre 2015

Vivaldi. Musica al femminile.




 Antonio Vivaldi, nato nel 1678 a Venezia, è stato uno dei più importanti e influenti compositori barocchi. Ordinato sacerdote nel 1703, nello stesso anno iniziò a lavorare come musicista e compositore per il Pio Ospedale della Pietà, il più noto dei quattro ospedali femminili di Venezia. E' probabile che Vivaldi abbia composto musica per la Pietà anche dopo la fine della sua collaborazione ufficiale. In questi istituti ragazze orfane o nate in famiglie povere ottenevano un'ottima educazione musicale. Le più brave restavano nelle Scuole anche dopo l'adolescenza. Nella sua opera autobiografica Le Confessioni  Jean-Jacques Rousseau fece l'elogio di quelle giovani cantanti e strumentiste, che ascoltò nel suo soggiorno a Venezia e con le quali poté pranzare:

"Una musica molto superiore, secondo me, a quella dell'opera che non trova eguali né in Italia, né altrove nel mondo, è la musica delle scuole. Le scuole sono degli istituti di beneficenza creati per educare le ragazze povere, destinate poi dalla Repubblica o al matrimonio o al convento. Tra tutte le materie insegnate a quelle ragazze, la musica ha un posto fondamentale. Tutte le domeniche, nella chiesa di ognuna delle quattro scuole, durante i vespri si cantano mottetti per coro e orchestra, composti e diretti dai più grandi maestri italiani, ed eseguiti [in tribune con grate] esclusivamente da ragazze, la più grande delle quali non arriva a vent'anni. Secondo me non esiste nulla di più voluttuoso e di più toccante di quella musica; le ricchezze dell'arte, il gusto raffinato dei canti, la bellezza delle voci, la precisione nell'esecuzione, tutto in quei deliziosi concerti contribuisce a produrre un'impressione che non rientra certo nei buoni costumi ma dalla quale sfido qualsiasi uomo a mettersi al riparo" (Jean-Jacques ROUSSEAU, Le Confessioni, Libro Settimo, 1991, p.297 e seg.).

Quasi un secolo prima della Rivoluzione francese, nella cattolica Italia, la dignità delle donne trovava riconoscimento e tutela anche con questa educazione di alto livello. Davvero le religioni sono tutte uguali?

domenica 6 settembre 2015

Italia. I consumatori premiano i produttori esteri.




La crisi italiana, nonostante la martellante propaganda, continua a presentare tratti peculiari, configurandosi con sempre maggiore evidenza come crisi dell'offerta prima che della domanda. Una vitale e sana ripresa dei consumi può essere sostenuta soltanto da un aumento della competitività. Solo buoni produttori possono essere buoni consumatori.
Francesco Daveri su  lavoce.info del 1 settembre 2015 rileva che in Italia i consumatori premiano i produttori esteri e delinea i motivi della inadeguatezza dell'offerta italiana:

" Nel complesso, dunque, la domanda interna ed estera del settore privato vanno piuttosto bene e, sommate insieme, crescono dello 0,4 per cento, cioè di un’incollatura in più rispetto al Pil (che fa registrare, come detto, un +0,35). Ma questa accresciuta domanda viene soddisfatta più che in passato da produzione estera (le importazioni, in crescita del 2,2 per cento nel secondo trimestre 2015, e del 2 per cento nel semestre) anziché da produzione interna (il Pil). Se a soddisfare la domanda di famiglie e imprese sono produttori esteri, il volume di produzione industriale e dei redditi generati in Italia ne soffre per forza. E il Pil cresce meno di quanto potrebbe".

" A pesare sull’aumento delle importazioni è però anche la perdita di competitività subita dall’Italia negli anni della crisi (per la minore produttività a fronte di salari che hanno continuato a crescere sia pure in misura minore che in passato), solo parzialmente compensato dal deprezzamento dell’euro degli ultimi dodici mesi. Siccome l’andamento dell’euro sembra essersi stabilizzato, diventa ancora più urgente ristabilire le condizioni per un recupero di convenienza a localizzare la produzione entro i confini nazionali: riducendo davvero tutte le imposte, accelerando la soluzione dei contenziosi nella giustizia civile e completando le riforme in cantiere per rendere la pubblica amministrazione e la scuola sempre più al servizio degli utenti. Ben di più che politiche di sostegno alla domanda".

Le considerazioni del professor Daveri consentono di dar conto dell'occupazione in Italia. In questa prospettiva Thomas Manfredi su linkiesta.it del 2 settembre 2015 osserva:

"È importante tenere a mente che, in assenza di crescita del prodotto, l’aumento di occupazione che eventualmente si ricaverebbe sottintende una crescita della produttività ancora vicina allo 0 se non negativa. Se le ore lavorate, infatti, aumentano più del prodotto, il rapporto fra le due variabili, che definisce la produttività, non può decrescere. Come si possa credere di creare occupazione stabile e di qualità con una produttività stagnante rimane uno dei misteri che i tanti urlatori di dati sul mercato del lavoro dovrebbero, a un certo punto, svelare".

Occorre dunque intervenire  incisivamente sul lato dell'offerta: riformare il welfare in senso produttivistico rendendolo sostenibile, ridurre la pressione fiscale, migliorare il capitale umano diffondendo le competenze matematiche, tecniche e scientifiche, alleggerire il peso della burocrazia. Questo gli elettori devono chiedere a chi aspira a rappresentarli.

domenica 30 agosto 2015

Di chi è la colpa? Dalle responsabilità alle possibili soluzioni.




Uno dei più gravi e stringenti segnali del declino che colpisce la maggior parte delle democrazie occidentali è costituito dal dibattito pubblico fuorviante e inefficace. Ha colto nel segno il professor Luca Ricolfi che su Il Sole 24 Ore del 15 agosto ha denunciato lo spostamento delle responsabilità in atto:

"Non avendo il coraggio di dire di no ai nostri figli, ce la prendiamo con le cattive compagnie, gli spacciatori, i gestori delle discoteche, i controlli insufficienti, le forze dell'ordine. Non avendo né l'intenzione né la possibilità politico-militare di normalizzare il nord-Africa ce la prendiamo con l'egoismo dell'Europa e l'incapacità del governo italiano di accogliere tutti dignitosamente. Un mix di rassegnazione e di paternalismo indirizza la nostra indignazione verso i bersagli più alla nostra portata".

"Diamo per scontato che i popoli dell'Africa non sappiano auto-governarsi, come diamo per ineluttabile che i giovani siano attratti dalla movida e dallo sballo. Succede lo stesso nella scuola, dove non si consuma alcun dramma ma da decenni assistiamo alla medesima sceneggiata. Con tutta evidenza il problema di base è che gli studenti non studiano, e non lo fanno per la semplice ragione che alla maggior parte dei genitori interessa solo il pezzo di carta e la serenità dei figli. E tuttavia torme di quei medesimi genitori, assetati di vacanze e intrattenimento, non trovano di meglio che mettere alla sbarra gli insegnanti, evidentemente incapaci di motivare a sufficienza i loro figli".

"Una sorta di strabismo etico ci fa distogliere lo sguardo dai veri responsabili dei drammi piccoli e grandi del mondo, e indirizza il nostro bisogno di “individuare i colpevoli” solo sui colpevoli facilmente perseguibili o stigmatizzabili, anche quando sono semplici comparse".

Nel caso dei vertici della Chiesa cattolica gioca un importante ruolo una discutibile applicazione dell'etica della responsabilità che i cattolici lodevolmente adottano. Secondo questo principio,  tanto caro a Karl Popper, dobbiamo scegliere ponendo sempre attenzione alle prevedibili conseguenze delle nostre decisioni. Alcuni tra i principali pastori della Chiesa evidentemente ritengono che accusare duramente e direttamente i responsabili di eclatanti crimini di massa, mettendo in luce le loro reali motivazioni, produrrebbe un aumento delle violenze, delle distruzioni e delle persecuzioni.
 Si tratta in realtà di valutare se il tempestivo impiego di una forza militare soverchiante, soprattutto in presenza di convinzioni religiose chiaramente legate al successo militare, sarebbe potuto essere vantaggioso, proprio sotto il profilo umanitario, rispetto all'attuale approccio contraddittorio ed esitante.
Analoghe considerazioni possono risultare appropriate relativamente agli altri contesti  delineati. Del resto il severo richiamo alla responsabilità individuale non è estraneo alla Tradizione cattolica. Basti citare san Paolo, che richiamò i cristiani di Tessalonica con queste parole:

"chi non vuol lavorare neppure mangi" (Tessalonicesi 2 - 3,10).

Una corretta attribuzione delle responsabilità pare insomma la necessaria premessa di una fruttuosa ricerca di possibili soluzioni, pur nella consapevolezza che ciò che risulta vantaggioso per alcuni danneggia nel contempo altri. Bisogna scegliere.

domenica 23 agosto 2015

Economia del debito. La toppa è peggiore del buco.



Sul Corriere della Sera del 22 agosto 2012 Federico Fubini delinea la tendenza della crisi economica mondiale, nata dal debito pubblico e privato e resa ancora più esplosiva dal suo incremento fuori controllo:

"L’obiettivo dei banchieri centrali - centrato in gran parte - era placare il panico, ridurre i tassi d’interesse, evitare una corrosiva deflazione dei prezzi. Ma pochi all’inizio si sono chiesti esattamente dove sarebbero finiti quei soldi, una volta in circolazione. Ora che siamo più vicini al primo aumento dei tassi d’interesse della Fed in dieci anni, lo sappiamo. Lo si vede nei tremori dei Paesi emergenti, dove si teme la fine dei finanziamenti esteri a basso costo che per anni hanno sostenuto intere economie".

"Quella coltre protettrice di denaro...ha permesso al Brasile, o al Messico, o all’Indonesia di rinviare la resa dei conti con i problemi di casa: infrastrutture inadeguate, corruzione dilagante, Stato di diritto inaffidabile". 

"Da lì viene però anche il secondo filo rosso che lega la crisi di Wall Street a questi giorni. Nel novembre 2008, il premier di Pechino Wen Jiabao reagì al crash di Lehman Brothers con un maxi-pacchetto di stimolo per evitare che la Cina finisse aspirata nella recessione americana. Varò un piano da 470 miliardi di dollari per costruire nuove città, raddoppiare la capacità produttiva di pannelli solari, auto o acciaio. È stata una stagione di ulteriori eccessi negli investimenti improduttivi: città fantasma, aeroporti vuoti, stock di prodotti accatastati ad arrugginire nei porti della costa. In pochi anni il debito totale della Cina (banche escluse) è salito dal 140% al 248% del Pil. Ormai la seconda economia del mondo è costretta a frenare, e con essa anche la domanda globale di petrolio, rame, grano o legumi, i cui prezzi infatti stanno crollando".

Nei grandi paesi emergenti, o recentemente emersi, la gravità del problema appare con violenta evidenza. Da Il Sole 24 Ore del 23 agosto 2015:

"...i principali fattori che determinano la capacità di un’economia emergente di emergere veramente, in modo sostenibile, sono la politica, le policy e l’operato delle istituzioni di governance. Per essere più precisi, anche se i Paesi possono cavalcare le ondate di crescita e sfruttare i cicli delle materie prime nonostante istituzioni politiche disfunzionali, il vero e proprio banco di prova si presenta nei periodi meno propizi, quando un Paese deve invertire la rotta".

"Nessuna delle democrazie di Brasile, Indonesia, Turchia e Sudafrica sta riuscendo ad assolvere uno dei compiti basilari per qualsiasi sistema politico: mediare tra gruppi d’interesse confliggenti per permettere che prevalga un interesse pubblico più ampio che permetta all’economia di evolvere in modo flessibile, in modo che le risorse siano trasferite da impieghi che sono diventati infruttuosi ad altri con maggiori potenzialità. Un’economia bloccata, che non permette una tale distruzione creativa e un tale adattamento alle nuove circostanze, non potrà crescere in modo sostenibile".

Una profonda crisi provocata dall'insostenibilità del debito pubblico e privato è stata tamponata incrementandolo e favorendo i peggiori debitori, determinando così una rovinosa allocazione delle risorse. La più difficile e impopolare alternativa era ed è rappresentata dalla paziente ricostruzione dei fattori di una sana e vitale crescita dell'economia reale. Riduzione della spesa pubblica consentita dalla creazione di un welfare sostenibile e orientato a favorire la produzione, conseguente diminuzione della pressione fiscale, miglioramento del capitale umano con la diffusione delle competenze matematiche, scientifiche e tecniche, riforma delle regole del mercato e delle istituzioni economiche, diretta a disincentivare la speculazione e a permettere una virtuosa allocazione delle risorse imperniata sull'aumento degli investimenti privati. 
Queste le misure necessarie che un governo lungimirante dovrebbe realizzare. I governi di quasi tutti i paesi hanno invece scelto un approccio monetario di ispirazione macroeconomica, spesso mal consigliati da economisti non stimabili eppure stimati. La politica per l'ennesima volta non ha conseguito i propri obiettivi fondamentali. Chi lavora o cerca un lavoro che non c'è scoprirà amaramente che la toppa è peggiore del buco.

sabato 15 agosto 2015

Mezzogiorno. Perseverare è diabolico.




       Il Mezzogiorno non riesce a superare lo stallo, una arretratezza che non ha trovato rimedio. Nicola Rossi su Il Foglio del 7 agosto 2015 delinea con lucidità i termini della questione:

"...bisogna essere fermi agli anni 80 per pensare che il problema del Mezzogiorno sia un problema di risorse (e anche allora i dubbi non mancavano). Bisogna aver passato gli ultimi vent'anni su Marte per pensare che la soluzione stia nei contratti di sviluppo o nel supporto pubblico ad attività economiche spesso fuori mercato. Più precisamente, bisogna essere terribilmente a corto di idee per pensare che si possa invertire un trend facendo esattamente le stesse cose che lo hanno determinato".

"Il peso dell'operatore pubblico nell'economia meridionale è largamente superiore a quello osservato nell'economia centro-settentrionale ed è andato crescendo nell'ultimo quindicennio. Per fare solo un esempio, i beni e servizi messi a disposizione del settore privato dall'operatore pubblico nel Mezzogiorno valevano nel 2000 poco meno del 30 per cento del prodotto dell'area (contro il 15 per cento circa del centro-nord). Oggi si attestano intorno al 34 per cento (contro il 17 per cento del centro-nord). Ciò nonostante (o forse esattamente per questo motivo) il Mezzogiorno non regge il confronto in tutti ma proprio in tutti gli indicatori di efficacia ed efficienza dell'operatore pubblico". 

"L'istruzione, la giustizia civile, la sanità, la sicurezza e l'ordine pubblico, la qualità dei servizi ambientali, i trasporti pubblici locali, il servizio idrico, la gestione dei rifiuti, i servizi di cura: in tutti i campi in cui servirebbe un operatore pubblico efficiente (se non altro come regolatore), nel Mezzogiorno manca pur non mancando le risorse. Rapida traduzione per chi vuole correre a fare un bagno: in un'economia e in una società già strutturalmente deboli, quelli che si moltiplicano senza sosta sono soprattutto (o solo) i canali di intermediazione politica e burocratica e con essi il volume di risorse quotidianamente sottratto alle scelte dei singoli e a una allocazione efficiente. C'è bisogno di aggiungere molto altro? Ci vuole così tanto per capire che le risorse pubbliche nel Mezzogiorno non sono la soluzione ma sono spesso e volentieri parte integrante del problema?".

Nel Mezzogiorno italiano sono eclatanti e smisurati i problemi che affliggono l'intero paese. L'intermediazione pubblica delle risorse è eccessiva e largamente inefficiente. Le istituzioni pubbliche sottraggono spazio e risorse a una società che può e deve trovare in sè le motivazioni e i mezzi per arrestare il declino e ripartire. Il settore pubblico rientri nei propri argini e svolga con efficienza i propri compiti fondamentali.  Il dibattito pubblico si riorienti e determini una chiara consapevolezza: è assurdo tentare di curare un alcolista cronico somministrando generosamente bottiglie di superalcolici.

sabato 8 agosto 2015

Health saving account. Il conto corrente sanitario.




Il conto corrente sanitario (health saving account) è un conto corrente obbligatorio o incentivato con agevolazioni fiscali vincolato al pagamento delle spese sanitarie. Le somme depositate dal titolare o da altri diventano di proprietà dello stesso. Se non utilizzate per cure mediche si accumulano con finalità previdenziali. In diversi paesi rappresenta una diffusa alternativa alle assicurazioni sanitarie private. Chi lo sceglie è spinto a prevenire le malattie con uno stile di vita più sano e ricorre ai trattamenti sanitari senza il filtro imposto dalle assicurazioni.
Sono numerosi gli strumenti che consentirebbero di ridurre l'ampiezza del costosissimo e inefficiente servizio sanitario nazionale. A chi giova un sistema siffatto, che rappresenta uno degli alibi più suggestivi di un'intermediazione pubblica della ricchezza prodotta dal paese che supera il cinquanta per cento? Come ridurre la pressione fiscale senza incidere sui settori più ampi della spesa pubblica? Come dare efficiente osservanza all'art. 32 della Costituzione italiana, che garantisce cure gratuite solo agli indigenti?
Non esiste una reale possibilità che l'Italia riprenda la via dello sviluppo senza l'adozione di soluzioni coraggiose che facciano perno sulla responsabilità e la libertà del cittadino. Il dibattito pubblico va in altre direzioni, ma la realtà s'impone sempre.

domenica 2 agosto 2015

Il calabrone Italia non riesce a volare.




I recenti dati sull'occupazione italiana sono deludenti. Antonella Cinelli su Reuters del 31 luglio 2015 ne ha dato così conto:

" Il tasso di disoccupazione italiano nel mese di giugno torna a salire, al 12,7% dal 12,5% di maggio, con quello giovanile che fa registrare il livello più alto dal 1977 confermando la lentezza delle ripresa dell'economia dopo un triennio di recessione".

"I dati sui disoccupati sono una cattiva notizia per il governo di Matteo Renzi che sulla riforma del mercato del lavoro ha puntato gran parte del suo prestigio politico.
La fotografia dell'Istat è giunta pochi minuti prima che Eurostat attestasse un tasso di disoccupazione dell'Eurozona fermo all'11,1% e a pochi giorni dal rapporto del Fondo monetario internazionale secondo il quale l'Italia impiegherà 20 anni per tornare ai livelli occupazionali precedenti la crisi economico-finanziaria".

"A giugno il tasso di occupazione è pari al 55,8%, in calo di 0,1 punti percentuali su mese e invariato su anno. Gli occupati sono 22,297 milioni, 22.000 in meno rispetto a maggio e 40.000 in meno su anno.
Il tasso di disoccupazione nella fascia di età 15-24 anni è cresciuto al 44,2% dal 42,4% del mese precedente, record dall'inizio delle serie storiche".

Secondo una nota leggenda il calabrone, in italiano correttamente il bombo, non dovrebbe volare perché troppo pesante in rapporto alla superficie alare. Nella realtà vola tranquillamente, grazie alla velocità del battito delle ali.
Il calabrone Italia invece, appesantito da pressione fiscale, spesa pubblica fuori controllo, welfare insostenibile, fallimento delle autonomie regionali, criminalità organizzata, burocrazia, qualità del capitale umano e declino demografico, non dovrebbe volare e non vola. 
Per riprendere a volare deve rapidamente intervenire sulle zavorre che lo frenano, nel rispetto degli ordini di grandezza. Purtroppo le misure proposte da governo e opposizione sono risibili per pochezza o addirittura controproducenti e pericolose. Il dibattito pubblico non riesce a denunciarne l'inadeguatezza. Non è un miracolo che fa volare il calabrone e non sarà un miracolo a ridare al nostro paese la capacità di volare.

lunedì 27 luglio 2015

25 luglio 1943. Il regime mussoliniano cadde sotto i colpi dei suoi migliori esponenti.

Dino Grandi


Ha scritto Elena Aga Rossi:

"La caduta di Mussolini il 25 luglio fu il risultato di due successive iniziative, entrambe maturate all'interno del regime: il voto di sfiducia del Gran Consiglio, il massimo organo del fascismo, e la decisione del re Vittorio Emanuele di chiedere le dimissioni al duce. Mussolini aveva accettato di convocare il Gran Consiglio del fascismo, che non si riuniva dal 1939, probabilmente per affrontare gli oppositori interni e metterli in minoranza; invece dopo un'accesa discussione che si prolungò per diverse ore, la mozione presentata da Grandi in cui si chiedeva al re di riassumere i poteri costituzionali fu messa ai voti e fu approvata con diciannove voti contro sette. Il giorno seguente il re prese finalmente l'iniziativa non soltanto di sostituire Mussolini con il generale Badoglio, ma anche di farlo arrestare, cogliendo totalmente di sorpresa il duce, convinto di poter contare sull'appoggio del re. In poche ore veniva posto fine in maniera  indolore ad un regime durato venti anni. L'opposizione antifascista non ebbe alcun ruolo nel rovesciamento di Mussolini... (Elena AGA ROSSI, Una nazione allo sbando, L'armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze, 2006, p. 71).

Furono i più intelligenti e lungimiranti gerarchi fascisti, Dino Grandi, Giuseppe Bottai, il genero del duce Galeazzo Ciano, a offrire al re l'occasione di far cadere Mussolini nei modi previsti dalle leggi costituzionali. Questi stessi esponenti del regime, con Italo Balbo ucciso in Libia poco dopo l'entrata in guerra, si erano opposti strenuamente alla partecipazione dell'Italia al conflitto a fianco della Germania nazista.
Singolare paese questo, che spesso si fa governare dai peggiori. Mussolini, uomo privo di vere intelligenza e cultura, avido di potere, all'interno del movimento fascista ebbe la meglio su Grandi e Balbo, poi emarginati. Il peggiore prevalse sui migliori, ma cadde per iniziativa di questi.

domenica 19 luglio 2015

La Chiesa cattolica e la Rivoluzione francese. Il seme del totalitarismo.




La Rivoluzione francese viene spesso presentata come la fucina delle libertà e dei diritti contemporanei. Quasi una necessaria conseguenza pare a molti l'ostilità della Chiesa cattolica  verso quelle idee e quei rapidi mutamenti. Diverse indicazioni si traggono dalla insuperata storia della Rivoluzione francese di Furet e Richet (Francois FURET e Denis RICHET, La Rivoluzione francese, Tomo primo, 1998, p. 154 e segg.):

"La maggior parte del clero e dei fedeli avevano sposato la causa patriottica. L'abolizione della decima ... e la nazionalizzazione dei beni ecclesiastici... non avevano gravemente compromesso i rapporti fra Chiesa e Stato".

"Fra Chiesa e Stato... si scaverà a poco a poco un abisso su due punti particolari: la tolleranza e l'intervento del potere temporale in campo spirituale".

"... assai più grave fu la pretesa dei legislatori...di avere poteri decisionali sovrani in materie attinenti al campo spirituale e a quello temporale al tempo stesso".

Così furono sciolte le congregazioni religiose fondate sui voti perpetui, tranne quelle che si dedicavano all'assistenza e all'insegnamento. Fu votata la Costituzione civile del clero, che sottrasse al papa l'investitura spirituale. I preti che esercitavano funzioni pubbliche furono obbligati a prestare giuramento alla Costituzione.

"...lo scisma provocherà  nella mentalità collettiva una pericolosa spaccatura...Nella strategia controrivoluzionaria entrano così in linea delle formidabili masse di manovra".

La Rivoluzione francese non riuscì, a differenza di quella americana, a consolidarsi come movimento dei diritti e delle libertà. Ne seguì l'ostilità dei cattolici, che nacque soprattutto come resistenza all'emergere di tendenze totalitarie. Qui è il seme del totalitarismo che insanguinò il Novecento. Questa è la chiave di lettura  per comprendere i rapporti successivi tra la Chiesa e la sinistra europea.                                                                                                                            

domenica 12 luglio 2015

Crisi. Le disuguaglianze che fanno male.






Papa Francesco e gli economisti più noti, i politici emergenti e i clienti del bar sotto casa, tutti parlano delle disuguaglianze, delle loro origini, portata e conseguenze. Alberto Mingardi sul Corriere della Sera del 12 luglio 2012 offre un'analisi saldamente ancorata al pensiero liberale:

"Per la gran parte della storia umana, la normalità è stata la stagnazione. Davanti al grande fatto della storia moderna, a questa incredibile moltiplicazione di pani, pesci e bocche da sfamare, l'intellettuale occidentale alza il ditino. Al capitalismo rimprovera di rendere i ricchi sempre più ricchi, e i poveri sempre più poveri. A dire il vero, il capitalismo ha inventato gli uni e gli altri. La società tradizionale era fatta di «stazioni»: uno doveva restare laddove era nato. Il denaro non determinava la classe sociale di appartenenza: lo faceva la nascita. La società di mercato ha aperto il recinto. La rivoluzione industriale trasforma la mobilità sociale, da fatto episodico, nella quotidianità di milioni di persone".

"Ma il problema non risiede nella distanza fra i ricchi e i poveri: quanto, piuttosto, nel modo in cui i ricchi sono diventati tali. Bisogna constatare che alcune, strepitose fortune sono possibili non perché subiamo un eccesso di «neoliberismo» (libera iniziativa, deregolamentazione, eccetera): ma perché lo Stato intermedia, in Europa, grosso modo la metà del Pil. Il pubblico si sostituisce al mercato come arbitro del successo: fabbrica norme che, ovviamente in nome di un qualche interesse superiore, decidono il risultato della gara competitiva prima della partenza. Nell'«1 per cento» dei più ricchi, c'è chi non vive della preferenza che gli accordano i consumatori: ma di appalti, innovazioni lautamente sussidiate, rendite privatamente lucrose e pubblicamente giustificate in nome di qualche interesse superiore. Non è un fenomeno nuovo, nella storia del «capitalismo reale». Mai però aveva interessato settori tanto ampi delle nostre economie".

"... oggi appare in pericolo una delle più apprezzate «creazioni» del capitalismo: la classe media. Le diseguaglianze appaiono più tollerabili quando prevale un'impressione di dinamismo sociale. I figli degli operai hanno potuto diventare dottori non solo grazie all'istruzione pubblica e gratuita ma soprattutto perché una certa, sobria «serenità» finanziaria era un obiettivo a portata di tutti. Oggi la tassazione strangola i redditi delle classi medie. La mobilità sociale è passata anche attraverso il risparmio. Le rinunce dei padri pagavano gli studi e la prima casa dei figli. I tassi per impieghi del risparmio poco rischiosi sono ormai stabilmente prossimi allo zero: il che va benissimo per chi può permettersi scommesse ardimentose, ma umilia le «formichine»".

"Ma tasse e scelte di politica monetaria oggi frenano quel dinamismo sociale che del capitalismo è stato un (apprezzato) sottoprodotto. L'obiettivo di chi accende i riflettori sulle disuguaglianze è giustificare imposte più alte sui «ricchi», non ridurre le rendite che alcuni percepiscono per buona grazia del sovrano".

L'ottimo articolo di Mingardi ci porta a delineare un programma realistico. Il pericolo più grande per i liberali è conservare un approccio ideologico, che non fa i conti con l'inadeguata diffusione della visione liberale e con la forza dei suoi avversari.
I puristi del liberalismo (ma non il nostro Luigi Einaudi) hanno a lungo avversato le idee di Wilhelm Röpke, l'economista consigliere di Adenauer. Quegli stessi puristi oggi guardano con ostilità all'economia tedesca, segnata anche da tratti dirigisti e statalisti. Eppure, per tanti versi, oggi la Germania costituisce l'ultima grande economia europea liberale. L'ultima importante opinione pubblica che resiste alle illusioni della politica monetaria è proprio quella tedesca. Il governo tedesco mette le sfide della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica al centro del dibattito pubblico.
La crisi greca pone l'Europa davanti a scelte decisive. Come ha ben scritto Danilo Taino sul Corriere della Sera del 12 luglio 2015:

"A Berlino si sospetta che Hollande voglia evitare che l’uscita di Atene dall’euro apra un varco per una riforma forte dell’eurozona. Una riforma che avverrebbe sulle linee della Germania, cioè di una maggiore integrazione non solo di bilancio ma anche delle riforme strutturali e in prospettiva del governo europeo. Sarebbe un’Europa sempre più tedesca, che Parigi non vuole. Meglio dunque la scelta conservatrice, dal punto di vista di Hollande: continuare con Atene come si è fatto per cinque anni, anche a costo di un nuovo programma di aiuti che difficilmente sarà risolutivo per la Grecia; l’importante è non creare il caso, la Grexit, che costringa a fare riforme «merkeliane»". 

Il riformismo liberale in Europa, e non solo, oggi si manifesta nel programma di riforme strutturali tedesco. Per molti liberali un rospo da ingoiare. Ma sarebbe un errore cadere in un massimalismo sterile, nemico del possibile.

domenica 5 luglio 2015

Grecia. Le ragioni di Merkel sono quelle dell'Europa.




Con il referendum si mette in scena un altro atto della tragedia greca dei nostri giorni.
Gian Luca Clementi  su Il Sole 24 Ore del 30 giugno 2015 ha scritto:

"Ora che siamo al redde rationem per la Grecia, il comportamento della BCE e del Consiglio europeo, di cui la signora Merkel è membro di spicco, guiderà la determinazione delle aspettative di mercato per ulteriori episodi che potrebbero interessare altri paesi membri, tra cui l’Italia. La percezione che le istituzioni europee diano al governo greco ulteriore sostegno finanziario senza che quest’ultimo si impegni nell’implementare il fatidico piano di riforme, costituirebbe il segnale di via libera per gli Tsipras in erba che crescono rigogliosi ovunque la situazione economica avversa produca malcontento.
I vari Salvini e Grillo, per citare due tra i capipopolo del movimento populista no-euro in Italia, avrebbero un argomento efficace per convincere un elettorato sensibile che il governo dovrebbe sottrarsi al patronaggio delle istituzioni europee e calarsi senza indugio in programma di spese a gogò. È ovvio che, se avessero successo nella loro opera di convinzione, faremmo una fine davvero tragica. E con noi tutta l’Europa".

Sul Corriere della Sera del 1 luglio 2015 anche Danilo Taino sottolinea il ruolo di Merkel:

"In questa cornice, fare la scelta di dare denaro ad Atene senza un programma di riforme avrebbe voluto dire non solo mettersi contro tutti, in Germania e in Europa: avrebbe significato soprattutto rimuovere la pietra angolare dell’Eurozona a 19 Paesi, cioè il fatto che l’unico modo per sperare di stare assieme in un’Unione monetaria è rispettarne le regole. Superata quella linea rossa, liberi tutti, qualsiasi cosa sarebbe potuta succedere. Lunedì ha spiegato che se l’Europa rinnegasse i suoi principi «anche solo momentaneamente, nel medio e lungo termine ne soffrirebbe i danni». Tra cercare di vincere una battaglia sbagliata e cercare di vincere una guerra giusta, la cancelliera ha scelto la seconda strada. E ha dunque modificato il paradigma: salvare l’euro per salvare l’Europa non comporta più l’obbligo di salvare Atene". 

Di quale Europa abbiamo bisogno? Come fronteggiare i  problemi della competizione economica mondiale? Come tornare a una crescita sana, vitale, capace di creare nuova occupazione?
La risposta del governo tedesco è chiara: conti pubblici sotto controllo, welfare sostenibile, tutela del risparmio, ricostituzione di un adeguato capitale umano con la diffusione delle competenze tecnico-scientifiche, riforma del diritto del lavoro, innovazione produttiva, riduzione della pressione fiscale, ripresa degli investimenti privati, ripristino di una normale certezza del diritto.
Nel dibattito pubblico tedesco emergono i problemi dell'economia reale e possibili soluzioni. E' un chiaro segnale della capacità del paese di affrontare costruttivamente la crisi. Angela Merkel, chiedendo alla Grecia uno sforzo serio e riforme incisive, rifiuta l'Europa delle illusioni e del declino produttivo per promuovere quella dello sviluppo, della produzione, dell'innovazione, della competitività, di un realistico approccio ai problemi posti dalla globalizzazione e dalle nuove tecnologie.
Le ragioni di Merkel sono dunque quelle dell'Europa. 

venerdì 26 giugno 2015

Al gioco delle banche centrali vince il mondo della finanza.




Anche il quotidiano della Confindustria ha cantato le lodi delle misure non convenzionali adottate dalle principali banche centrali. Ora, finalmente, la disillusione pare prendere il sopravvento. Su Il Sole 24 Ore del 26 giugno 2015 Enrico Marro presenta una efficace sintesi:

"L'iperattività delle banche centrali, che stanno inondando il mondo di liquidità con tassi a zero, ha incoronato un vincitore indiscusso: i mercati finanziari".

Il “divaricarsi” della forbice tra profitti di Borsa e crescita reale ha portato a un parallelo divaricarsi della forbice tra ricchi e poveri... E non si tratta solo degli States: l'allargamento delle disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza è un fenomeno mondiale".

"Ma la politica monetaria delle banche centrali ha incoronato un altro vincitore. «Abbassando i tassi di interesse e dichiarando un obiettivo più alto di inflazione, la banca centrale favorisce tutti gli indebitati – spiega Alessandro Picchioni, Responsabile investimenti di WoodPecker Capital - specialmente quelli cronici»". 

"Fin qui i vincitori. Vediamo i perdenti. Secondo Picchioni, non c'è dubbio che il “taxpayer” sia il predestinato a perdere nella partita delle banche centrali: «abbassando i tassi di interesse e dichiarando un obiettivo più alto di inflazione, la banca centrale favorisce tutti gli indebitati, specialmente quelli cronici, il tutto alle spese del “taxpayer” che a parità di carico fiscale si vede ridotto il proprio potere d'acquisto». Senza contare che le classi media e bassa, già vittime della tendenza alla polarizzazione delle retribuzioni, sono state tagliate fuori dalla profittevole corsa delle Borse perché prive di ampie risorse finanziarie".

"«Molto spesso in queste circostanze si crea anche una frattura importante nell'ambito della categoria – spiega ancora Picchioni - per cui, vuoi per un malfunzionamento dell' ”ascensore sociale”, vuoi per la progressiva concentrazione di ricchezza nelle mani di una sparuta minoranza, la maggioranza dei “taxpayers”, sempre più povera, finisce per perdere progressivamente potere di acquisto e con questo fiducia nel futuro»". 

L'occupazione non migliora, si divarica la forbice tra ricchi e poveri, la pressione fiscale non diminuisce, l'"ascensore sociale" non funziona, i risparmiatori vengono penalizzati per favorire i grandi debitori. Questa è la realtà della economia influenzata dalle misure delle banche centrali. 
Ci sono alternative? Bisogna intervenire sui fattori di crescita dell'economia reale. Diffondere le conoscenze matematiche, scientifiche e tecniche, ridurre la spesa pubblica applicando anche ad essa il principio di progressività e controllando le dinamiche delle prestazioni sociali, diminuire così la pressione fiscale, ripristinare gli stimoli all'impegno individuale, eliminare la burocrazia non necessaria, uniformare le regole nella economia globalizzata, raggiungere una buona certezza del diritto, disciplinare l'immigrazione per consentire una adeguata remunerazione di alcuni dei più importanti lavori non qualificati, aprire le professioni alla concorrenza, colpire il capitalismo relazionale e clientelare.
Questa è l'alternativa alla demagogia e alle illusioni spacciate da chi vuole perpetuare i vecchi privilegi e/o crearne di nuovi.

sabato 20 giugno 2015

Napoleone a Waterloo. La storia fatta da criminali.




Due secoli sono passati dall'ultima battaglia di Napoleone: Waterloo. Dopo tale definitiva sconfitta uscì di scena. Questo ennesimo massacro dove le sue truppe furono vittime e carnefici è in questi giorni ricordato in modi spesso discutibili. Il bicentenario rappresenta in realtà una buona occasione per riflettere sulla storia del potere politico. Su questo tema  scrisse lucidamente Karl Popper:

"Non esiste una storia dell'umanità, ci sono solo molte storie dei vari aspetti della vita umana. E uno di questi è la storia del potere politico. Questa viene innalzata a storia universale. Ma ritengo che ciò costituisca un'offesa a ogni onesta concezione dell'umanità. Non è per nulla meglio che considerare la storia della malversazione, o del latrocinio, o del veneficio, come storia dell'umanità; infatti, la storia della politica non è nient'altro che la storia del crimine internazionale  e dell'omicidio  di massa, compresi, a dire il vero, alcuni dei tentativi per eliminarli. Questa storia viene insegnata nelle scuole, e molti dei più grandi criminali vengono presentati come eroi".

"Una storia concreta dell'umanità, se ne esistesse una, dovrebbe essere la storia di tutti gli uomini. Dovrebbe essere la storia di tutte le speranze, di tutte le lotte  e di tutte le sofferenze umane. Non esiste infatti nessun uomo che sia più importante di un altro. Chiaramente, questa storia concreta non può essere scritta. Dobbiamo procedere per astrazioni, esclusioni, scelte. Ma con questo arriviamo a molte storie; e, fra esse, a quella storia del crimine internazionale e dell'omicidio di massa che  è stata propagandata come la storia dell'umanità". (Karl POPPER, C'è un senso nella storia?, in Dopo La società aperta, 2009, p. 152).

Napoleone, come i suoi rivali, è stato un grande criminale, uno dei grandi assassini protagonisti della storia del potere. Dunque la guerra è sempre ingiusta? Mai più la guerra? Questa è un'altra storia.


Visite